È il dieci luglio, a Tor Bella Monaca l’afa si fa sentire e non poco, quando un gruppo di adolescenti si raduna davanti a un secchio dell’immondizia a riprendere i topi che sgambettano e nel mentre fanno la conta dei roditori qualcuno tra di loro in stretto slang romanesco dice “Ao, questo lo mettemo su Facebook, taggame”.
Quei ragazzi reporter erano ignari del grande servizio che stavano realizzando per il loro quartiere!
Quel video il giorno dopo diventa virale e “costringe” il neo Sindaco Raggi a recarsi direttamente nel quartiere per prendere coscienza della realtà e, forse, risolvere il problema.
È da questo significativo episodio, anche abbastanza squallido e desolante, che bisognerebbe ripartire per avviare quell’immensa operazione di riqualificazione che deve coinvolgere tutte le Città italiane.
Da un nuovo modo d’intendere i social e il loro utilizzo.
Da un moderno rapporto tra amministrazione pubblica e cittadino che sfrutti al meglio questi strumenti del web e le enormi potenzialità che ci offrono.
Perché va bene pubblicare il selfie con gli amici sulla spiaggia, così come meritano di essere immortalati e regalati alla rete i momenti più importanti della nostra vita, ma ancora più importante è contribuire con il nostro senso civico al mantenimento del decoro delle nostre Città.
Questo tipo di visione è già abbastanza sviluppata in altre zone d’Europa: a Jun, nel Sud della Spagna, per esempio oggi Twitter è il mezzo per prendere appuntamento con il medico o per presentare una denuncia, è il filo conduttore che tiene collegato José Antonio Rodriguez Salas., sindaco della cittadina, con i suoi funzionari e questi con i cittadini.
Un modello di comunicazione orizzontale che favorisce l’effettivo controllo sull’erogazione dei servizi e la partecipazione oltre che un considerevole risparmio per le casse del Comune.
È anche vero che alla segnalazione deve seguire un rapido e tempestivo intervento, altrimenti il “giochino” non funziona e l’amministrazione pubblica continua ad essere percepita come inefficiente e incapace di risolvere i problemi quotidiani dei propri cittadini.
Da mezzo… a luogo di Luigia Vendola
L’accesso alle informazioni e alla formazione, la condivisione delle attività e delle conoscenze, il monitoraggio delle proprie azioni e le reazioni on time dei propri clienti sono state stravolte dall’utilizzo pervasivo del digitale. L’uso dei canali digitali ha cambiato il pubblico e il privato delle persone, ha modificato i modi di relazionarsi, di lavorare, di reperire le informazioni e di formarsi.
Non ci si può sottrarre a quella che i media chiamano la Digital Transformation, ovvero a tutti quei cambiamenti che veicolati dall’evoluzione tecnologica che hanno modificato e continuano a modificare le dinamiche sociali.
La Digital Trasformation ha portato con se nuove dinamiche sociali e nuove competenze talmente importanti e delle quali non si può più fare a meno che nella Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 dicembre 2006 , relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente troviamo tra le competenze chiave quelle digitali.
Movimenti e politica dopo il novecento
Oggi sul Corriere Pierluigi Battista conclude, forse troppo drasticamente, che il novecento è morto e che i nuovi movimenti si stanno consolidando in tutta Europa. Il novecento, a mio parere, non è affatto morto. Anzi. È proprio la sua estrema vitalità sul piano politico e della rappresentanza che ne impedisce l’auspicato quanto necessario superamento. I vari movimenti politici che si propongono in tutta Europa segnalano un disagio profondo; il disorientamento dei cittadini di quasi tutti i Paesi causato dalla globalizzazione. È la ricerca di risposte semplici, immediate, che riportino indietro il tempo. Non c’è in nessun nuovo movimento uno sguardo sul futuro. C’è una vaga quanto ingenua promessa che con maggiore onestà e una più puntuale difesa degli interessi nazionali tutto possa ritornare come prima per il ceto medio, gli anziani che si sentono emarginati e, ovviamente per il futuro dei giovani. Addirittura si tende a far passare l’idea che i fenomeni migratori siano causati dalla incapacità della politica tradizionale e delle istituzioni di affrontarli contingentarli e risolverli rapidamente. Non esiste un’analisi sulla inevitabilità dei flussi migratori e sulla necessità di prepararsi ad un mondo profondamente diverso da quello al quale siamo cresciuti. Il sussulto della Brexit va in quella direzione, così come tutto ciò che sta avvenendo al di fuori del “controllo” della destra e della sinistra tradizionale nel mondo. L’inadeguatezza delle risposte tradizionali viene sostituita dall’inadeguatezza delle risposte nuove. Tutto qua. La globalizzazione ha messo in campo le sue priorità e la politica come elemento di mediazione e di proposta non è tra quelle. Inoltre la cosiddetta disintermediazione, sul piano planetario ha colpito innanzitutto le istituzioni e la politica dei singoli Paesi mostrandone l’inefficacia nel governare i fenomeni e determinando quindi una risposta di “pancia” delle persone lasciate sole con i loro problemi. Gli schemi stanno saltando un po’ dappertutto ma non credo siano sufficienti le ingenue risposte messe in campo fino ad oggi. Resto convinto che questo non è il tempo per risposte parziali, difensive o spinte localistiche. È, al contrario, il tempo delle grandi coalizioni nazionali e internazionali omogenee che possano rimettere al centro una discussione vera sulle regole di governo dell’economia, gli assetti della democrazia, le grandi onde migratorie e trovino anche le risposte per chi resta necessariamente indietro in questa fase di transizione. Il meccanismo che è stato messo in moto non ci dice quale sarà l’approdo finale. Ci dice solo che ciò che abbiamo alle spalle è inadeguato e che il “viaggio” è obbligato. C’è chi pretende di ritornare indietro, chi non vuole andare avanti e chi propone risposte semplici a problemi complessi. Molti sono affascinati dai dilettanti, dagli inesperti, dalle scorciatoie. Al contrario questa è la fase dove i migliori professionisti dovrebbero lavorare insieme per costruire il futuro. Il novecento ha prodotto pensiero, ricchezza e speranze. I grandi movimenti politici e sociali che sono nati e cresciuti in quegli anni e in quelle circostanze devono saper trovare cosa li unisce e sapere quale è la posta in gioco. Per questo io non credo affatto che siano al capolinea. Perché come afferma un vecchio proverbio arabo: “tra morto e morto e sepolto c’è un’enorme differenza.” È il momento di dimostrare che verrà il giorno dove destra e sinistra si confronteranno ancora su versanti opposti con proposte differenti perché si dovrà decidere come distribuire la ricchezza prodotta. Però non è questo il giorno. Oggi è tempo di convergenza e di unità di intenti tra tutte le forze politiche e sociali a cui i cittadini, tra l’altro, continuano a dare la maggioranza dei consensi. In Europa ma anche nei singoli Paesi che la compongono. Solo così quei movimenti ritorneranno ad avere una funzione utile di pungolo per la democrazia e di partecipazione per le nostre comunità. Ma in un quadro governato e sicuro.
Corresponsabilità e nuove relazioni industriali
Non si può parlare di “Partecipazione” nel nostro Paese senza ricordare gli eccellenti studi del prof. Baglioni e dei suoi discepoli dell’Università Cattolica, molto vicini alla CISL, dei centri studi di derivazione datoriale come il Centro Studi sui problemi dell’impresa (CESIPI) ispirato dall’UCID (Unione Cristiana imprenditori e dirigenti) o altri soggetti molto attivi intorno agli anni 70/80. Anni di conflitto ma anche anni di ricerca sociale. Quella che manca oggi dove, purtroppo, i giuslavoristi (alcuni dei quali lontani anni luce dalla realtà delle imprese) hanno preso il sopravvento nelle discussioni sul tema. La stessa “prima parte dei contratti”, quella dedicata al confronto sulle strategie aziendali, puntava in quella direzione ma è durata, di fatto, una breve stagione sindacale. In quegli anni è decollata anche la “bilateralità” (soprattutto nel terziario) ma sempre come strumento discendente dal contratto nazionale a cui delegare solo compiti specifici, seppur importanti. Nulla di tutto questo ha contribuito a far crescere una nuova cultura nelle imprese e tra i lavoratori che, in qualche modo, superasse le dinamiche del rivendicazionismo e quindi della conflittualità tipici del modello di relazioni industriali italiano. Una conflittualità e un antagonismo che hanno, nel tempo, perso la loro spinta propulsiva, da parte sindacale, con l’avanzare delle crisi che si sono via via succedute. Quel modello ha però continuato ad esistere protraendosi, di fatto, fino ai giorni nostri. Il punto nuovo è che la globalizzazione, la conseguente crisi del fordismo e l’affermarsi di nuove culture e tecnologie, lo hanno reso marginale. Oggi non serve più “comprare” solo il tempo di una persona né considerarla un pezzo fungibile di un sistema più complesso. Oggi occorre costruire un rapporto continuo di scambio professionale e di reciproco interesse che implica: ingaggio, condivisione, remunerazione, coinvolgimento e sviluppo. Sempre più personalizzato e non necessariamente per tutta la vita. E questo modello rende inutile o marginale un sindacato che volesse continuare una politica rivendicativa di stampo tradizionale. Soprattutto in un contesto di PMI che nascono e muoiono con maggiore frequenza determinando quindi in un mercato del lavoro molto più competitivo, mobile e globale rispetto al passato. Ma un modello partecipativo ha bisogno di un contesto sociale e culturale che in Italia non c’è. Sia tra i lavoratori sia tra gli imprenditori. Così, mentre è scontato che per alcuni sindacati quel modello rappresenti un ancoraggio ideale, il tramonto del fordismo pone altre sfide, qui e ora. L’impresa oggi è inserita in filiere globali, ha un core business specifico, lavora sempre più con terzi e non appartiene più ad un settore in modo rigido. Sviluppa partnership con fornitori e clienti, interagisce a monte e a valle con il suo mercato e con i suoi consumatori. È un’impresa sempre più a rete dove i confini, le responsabilità e gli obiettivi si devono necessariamente condividere. L’impresa, sempre più deve collaborare con il mondo esterno ed evolvere anche al suo interno sulle stesse modalità di lavoro, sul suo contenuto, sul contributo che viene messo in campo dai collaboratori e sul suo riconoscimento. L’impresa non è più in grado di assumersi rischi di investimenti, diventati enormi, da sola né di goderne in solitudine i vantaggi generati. Deve necessariamente condividerli. A monte con produttori, fornitori, istituzioni e banche. A valle con i propri manager, collaboratori, territorio e consumatori. È la nuova frontiera della corresponsabilità di cui parla il neo presidente Boccia. L’impresa può crescere, generare ricchezza e distribuirla solo se il contesto ne favorisce lo sviluppo in un mondo sempre più competitivo. L’imprenditore da solo non può farcela. E l’azienda e il contesto nel quale è inserita rappresentano il nuovo perimetro nel quale il sindacato deve trovare la sua nuova posizione in campo. Altrimenti rischia di essere superfluo. I modelli di coinvolgimento, condivisione e ingaggio dei collaboratori sono già in una fase molto avanzata in molte imprese. E non comprendono il sindacato. Le aziende della tecnologia, dei servizi alle imprese e della consulenza si muovono spedite e innovano modalità di lavoro, luoghi e metodi di gestione dei collaboratori. Soprattutto con i più giovani. Certo, non tutto è cambiato, ma il modello di riferimento è quello. Ed è un modello che esce dai vecchi confini organizzativi e dai vecchi vincoli contrattuali. Per questo ritengo che la sfida lanciata da Federmeccanica sia importante. Perché è innanzitutto una sfida culturale. Presenta dei rischi per il sindacato? Certo che sì. Il rischio di relazioni dirette nell’impresa tra capitale e lavoro che escluda i sindacati confederali, il progressivo consolidamento di “sindacati aziendali”, la messa in discussione di un modello che faceva nella “solidarietà tra uguali” il suo punto caratteristico, la concorrenza non solo tra giovani e anziani ma anche tra lavoratori di aziende diverse o di Paesi differenti. Parlare di “corresponsabilità” può portare anche in questa direzione. Ma questo presuppone un sindacato che non reagisce alle sollecitazioni del contesto. Un sindacato rassegnato che attende le proposte altrui. Un sindacato che non ha una sua lettura della “corresponsabilità” come gradino verso modelli futuri ancora più innovativi. Personalmente non so come si chiuderà il negoziato sul rinnovo contrattuale dei metalmeccanici in corso. So che Federmeccanica ha posto “il” problema. Le organizzazioni sindacali possono accontentarsi di respingere in tutto o in parte il potenziale strategico contenuto in quella proposta. Possono non condividerla o perfino banalizzarla. Il rischio è che la sottovalutino perché la vera svolta è lì dentro. Non c’è, come sembra pensare Landini, una proposta provocatoria da respingere al mittente. C’è una impostazione che guarda lontano. Vedremo come andrà a finire.
La disfida di Firenze.
Se una qualsiasi azienda si offrisse di superare i ventimila dipendenti nel nostro Paese, di continuare a svilupparsi su tutto il territorio, di offrire lavoro e crescita professionale,di utilizzare in gran parte prodotti italiani e di garantire igiene e sicurezza, non dovrebbe trovare nessuno, sano di mente, che decide, di punto in bianco, di mettersi di traverso. Siccome il Sindaco di Firenze, Nardella, lo ha fatto, è interessante cercare di capire le motivazioni di un gesto tanto clamoroso quanto incomprensibile. Mi ricordo che quando ero ragazzo sul distributore automatico di Coca Cola nella mia vecchia scuola una mano anonima aveva scritto con il pennarello rosso: “Per ogni coca cola che berrai, una pallottola all’AmeriKano tu darai, e se l’AmeriKano non fallisce è un compagno vietnamita che perisce”. C’era la guerra in Vietnam ma nessuno ci faceva caso più di tanto a quella scritta, salvo i militanti più accaniti che preferivano bere la Fanta o un Chinotto. Tutto qua. Nessuno avrebbe mai pensato di chiudere o di far trasferire il distributore automatico. Ed erano anni caldi. Sono passati più di quarant’anni ma sembra sia rimasta, in alcuni personaggi, una infrastruttura ideologica dura a morire. Firenze, secondo me, è lì a dimostrarlo. Un’azienda (McDonald’s) chiede di aprire un proprio negozio in centro, il comune pone tutte le condizioni che ritiene necessarie e il negoziato procede per oltre cinque mesi. Poi tutto si ferma e il Sindaco dichiara che quell’apertura non sa da fare, perché in quella piazza, simbolo della città, già degradata, quella apertura aggiungerebbe una nota negativa. Ovviamente il sindaco Nardella dichiara di non aver nessun pregiudizio ideologico né di voler impedire la libera iniziativa economica ma ribadisce il suo no: “McDonald’s non aprirà in Piazza del Duomo. Ne va del decoro della città”. Se togliamo il pregiudizio ideologico di cui sopra cosa ha che non va un’azienda che investe, si fa carico dei dipendenti licenziati dall’esercizio che sta chiudendo, propone un luogo di ristoro economico, di buon livello e che utilizza in gran parte materie prime provenienti da prodotti locali? E cosa potrebbero proporre gli “imprenditori fiorentini” chiamati da Nardella a farsi avanti con soluzioni in linea con il decoro della piazza? Sinceramente diventa difficile chiedere alle imprese estere di investire in Italia e poi provare a penalizzarle per pregiudizi o per calcoli politici locali. Da una amministrazione importante ci si aspetterebbe una sensibilità diversa. Invocare il decoro e l’immagine internazionale di una piazza importante di Firenze come elemento determinante per impedire lo sviluppo di un’impresa conosciuta in tutto il mondo rischia solo di essere un autogol per il nostro Paese. Se esistessero elementi contestabili nel merito del progetto si evidenzino e si solleciti l’azienda al loro rispetto. Se questi elementi, al contrario, sono solo prodotti da pregiudizi di un’altra stagione che non hanno più ragione di esistere si dia prova di buon senso prima che una vicenda locale assuma le caratteristiche di uno “scontro tra culture”. Non serve al nostro Paese e non serve a Firenze che dovrebbe fronteggiare, questo sì, il degrado già presente non solo in quella piazza che, al contrario, non viene minimamente affrontato. Con buona pace dei turisti ma anche dei fiorentini a cui non dovrebbe essere indicato un “nemico” del decoro che altro non è che un’azienda che investe e porta lavoro. A tutti, amanti o detrattori di quello che a torto viene ancora ritenuto l’emblema della globalizzazione resta, come nella mia vecchia scuola, la possibilità di scegliere se entrarci o meno. L’importante però è comprendere che se un’azienda multinazionale da lavoro a migliaia di lavoratori residenti in Italia, paga le tasse, rispetta le leggi e i contratti di lavoro, propone prodotti che per l’85% sono di origine italiana e si trova a dover decidere se investire o meno su nuovi format in Italia, non debba porsi il problema se farlo o meno a causa di un sindaco che, per motivi che non c’entrano nulla con la concessione di una licenza ha deciso di utilizzare la sua autorità con scarsa lungimiranza.
La stagione della corresponsabilità.
Il neo Presidente di Confindustria Boccia non poteva essere più chiaro all’assemblea di Federmeccanica: “vogliamo aprire una nuova stagione all’insegna della corresponsabilità”. Lo Stesso Presidente Sangalli di Confcommercio lo aveva ribadito nell’incontro con i vertici di CGIL, CISL e UIL propedeutico ad un percorso analogo che dovrà portare alla sigla di un accordo sui nuovi modelli contrattuali. E questa nuova stagione richiede una visione di lungo periodo e un protagonismo concreto dei corpi intermedi che, in questo modo, possono ribadire l’importanza di un negoziato autonomo e indipendente da ciò che il Governo potrebbe o vorrebbe fare sulla materia. Auspicando la firma del CCNL dei metalmeccanici prima di procedere nel merito con le tre confederazioni il Presidente Boccia ha ribadito l’importanza del cosiddetto “rinnovamento” contrattuale proposto da Federmeccanica come elemento centrale del nuovo approccio a cui punta Confindustria. Contrattazione decentrata come elemento fondamentale del sistema con una funzione di garanzia del CCNL per chi non intenderà seguire questa strada, centralità delle persona come soggetto attivo da valorizzare e corresponsabilizzazione tra capitale e lavoro come strategia di medio/lungo periodo. Infine la convinzione che al Paese non serva necessariamente un modello unico, uguale per tutti i settori economici. Quindi non ci sarà nessuna impostazione vincolante soprattutto per quei comparti che hanno scelto altre strade rispetto a Federmeccanica. Altre strade sulle modalità di erogazione del salario ma tutte convergenti sulla necessità di aprire o di consolidare un percorso costruttivo e positivo con i sindacati confederali. Nessun tentennamento sulla necessità di chiudere rapidamente i contratti ancora aperti come “avviso ai naviganti” sulle intenzioni e sulla volontà di guidare una svolta che guardi all’interesse del Paese da parte del nuovo gruppo dirigente di Confindustria. È indubbio che questo intervento aiuti e sostenga Federmeccanica nella sua “rivoluzione copernicana” ma la spinge inevitabilmente a trovare le mediazioni necessarie sulle modalità di erogazione salariale contenute nella proposta ribadita ancora nei suoi termini originari ai tre leader dei metalmeccanici. Da oggi il negoziato può finalmente entrare nel vivo. Sarà così? Dipenderà da diversi fattori. Innanzitutto dalla volontà della Cgil di giocare o meno la partita della “corresponsabilità” ed aprire, di fatto, una nuova stagione. Oltre tre milioni di firme raccolte per i suoi referendum non vanno certamente in questa direzione. Soprattutto raccolte nel totale silenzio (e dissenso) di CISL e UIL. Il segretario della FIOM Landini è l’unico che insiste sulla necessità di respingere in toto la proposta di “rinnovamento contrattuale” mentre sia Rocco Palombella della UILM che Marco Bentivogli della FIM si sono sempre concentrati sull’inadeguatezza della proposta salariale e questa non è una differenza da poco. Le stesse frequentazioni di Landini ad incontri della sinistra che vorrebbe contrastare Renzi e il suo Governo non fa presagire nulla di buono. Sul piano politico questo è il vero dilemma che si giocherà da qui al referendum. Innanzitutto per la CGIL e per Susanna Camusso perché un conto è essere “disintermediati” da Renzi insieme a tutti i corpi intermedi, un altro è auto emarginarsi a fronte di una possibile svolta che rimetterebbe anche la CGIL al centro della scena. Federmeccanica questo lo sa bene e quindi potrebbe essere suo interesse accelerare il confronto con proposte praticabili per spingere FIM e UILM a uscire allo scoperto rimettendo il negoziato su binari concreti. Personalmente continuo a credere che la CGIL (ma neanche la FIOM) non voglia diventare il megafono di una opposizione sociale destinato alla sconfitta e quindi alla marginalizzazione. Le vicende di mezza Europa, a cominciare dalla Francia, sono lì a dimostrarlo. Una nuova stagione servirebbe a tutti. Per questo auspico un cambio di rotta per il negoziato dei metalmeccanici. Un negoziato che può veramente segnare l’inizio di un cambio di scenario nell’interesse soprattutto del Paese.
Oggi siamo tutti a Istanbul…
Aggirare il risultato non serve, meglio alzare lo sguardo
Ogni giorno, una nuova notizia ci distrae. Innanzitutto il popolo “ignorante” della provincia inglese che avrebbe deciso senza conoscere le vere conseguenze di quell’atto; i giovani contro i vecchi, poi rivelatasi una bufala, i tre milioni di presunti pentiti pronti a rivotare, gli scozzesi duri e puri e, infine, l’insinuazione che il governo inglese possa non far partire la richiesta di distacco da Bruxelles. Ovviamente alla notizia corrisponde sempre una vigorosa presa di distanza autorevole che la sgonfia in poche ore. Al di là della mia personale curiosità nell’assistere ad una gestione dell’informazione a volte un po’ ridicola, è sintomatico il prevalere di chi vorrebbe far passare diciassette milioni di inglesi come in preda a ripensamenti, paure e voglia di ritornare sui propri passi. Non è così. E non lo è neanche per i veri decisori che, in realtà, si stanno muovendo, approfittando della situazione, con lo scopo di esautorare, di fatto, Bruxelles e di riportare saldamente in mano degli Stati nazionali il potere di governo della nuova Europa che si andrà a sostituire a quella che ormai è alle nostre spalle. Ovviamente nessuno ha interesse a rompere con gli inglesi per ragioni storiche ma anche per ragioni economiche. Quindi più che perdere tempo a ipotizzare inutili ripensamenti sarebbe meglio concentrarsi per comprendere meglio quali dovrebbero essere le priorità, gli interessi e il nuovo rapporto tra Stati nazionali e Bruxelles. Cosa integrare, prima che sia troppo tardi r cosa lasciare ai singoli Stati. L’incertezza e i contraccolpi non sono causati dalle false notizie di temporeggiamento ma dal fatto che nessuno è in grado di dire se questa improvvida forzatura è l’inizio di una nuova e più profonda crisi che ci travolgerà o se, serrando le fila, l’Europa potrà ripartire. Ma soprattutto, come. Con il referendum italiano e le elezioni tedesche e francesi all’orizzonte c’è poco da stare tranquilli. Nessuno si vorrà esporre. È il rischio di lasciare il campo alla speculazione internazionale è troppo alto. Il vero problema riguarda le due grandi famiglie politiche che oggi governano l’Europa. I popolari, per vocazione, ma anche i socialdemocratici, appartengono innanzitutto ai rispettivi Paesi. E osservano l’Europa quasi esclusivamente da quel punto di vista e interesse senza preoccuparsi troppo di scaldare le coscienze e i cuori del resto del continente. E questo è un limite che sta diventando letale, soprattutto per i socialdemocratici che rischiano, in casa propria, pesanti rovesci elettorali proprio perché non riescono a dire nulla di originale e di credibile sulla natura della crisi e sulle sue prospettive. Soli, isolati nel loro Paese, sono meno credibili dei conservatori europei e sottoposti alla pesante pressione di quei movimenti che prospettano soluzioni semplici a problemi complessi. Ed è in questo campo che, secondo me, si potrebbe giocare il futuro di un’Europa diversa. Ma ci vuole tempo. E questo tempo va gestito inevitabilmente insieme tra popolari e socialisti. Insieme perché l’alternativa di procedere in queste condizioni, motu proprio, non esiste. E sarà così anche nei singoli Paesi. Almeno fino a quando i movimenti anti sistema non ritorneranno ad essere residuali. Io non credo che il problema sia se la nuova Europa sarà a trazione tedesca o di altri. Avendoci interagito per anni, considero la Germania, un solido punto di riferimento più di altri Paesi. E non credo possibile, allo stato dei fatti, fantasticare su modelli improbabili. Personalmente credo in una Europa che metta al centro il dialogo sociale, che individui nuovi percorsi per un welfare credibile, che si occupi anche dei “perdenti” e che diventi un motore forte dell’innovazione tecnologica, sociale ed economica. In altre parole che non si rassegni al declino né che lo combatta solo a vantaggio di pochi. Nei ragionamenti e nelle proposte della sinistra europea tutto questo c’è. Però c’è anche poca generosità nell’agire. Ed è in questa mancanza di generosità e di visione strategica che la sinistra europea ha difficoltà a raggiungere il cuore dei cittadini e quindi rischia di essere sconfitta politicamente perché la paura di perdere ciò che ciascuno pensa di avere conquistato individualmente e per sempre (anche se non è vero) guiderà le scelte di ciascuno di noi. E quando gli egoismi o gli interessi personali prevalgono sugli interessi di una comunità o di un insieme di comunità, non succede mai niente di buono.
Destra, sinistra e corpi intermedi italiani nella globalizzazione
La Brexit consente a tutti, finalmente, di aprire gli occhi. Dopo la Germania anche la Spagna si avvia inevitabilmente verso la grande coalizione. In Italia, le analisi sulla crisi europea tra centro destra e centro sinistra non si differenziano più di tanto. Sono segnali di convergenza. Lo stesso intervento di Galli della Loggia sul corriere segnala un fenomeno su cui è necessario riflettere. Oggi, in Europa, si affrontano sostanzialmente due grandi schieramenti. Da una parte le forze che si riconoscono nel sistema, dall’altra chi lo vuole superare o distruggere. È uno degli effetti della globalizzazione. E chi si riconosce nel sistema economico, sociale e politico, pur con proposte e priorità differenti, comincia a comprendere che l’avversario vero è un altro e che, se non affrontato con determinazione e unità di intenti, rischia di terremotate il sistema stesso. Lo stesso vale per il nostro Paese. Chi lo ha capito e prova a giocare una carta diversa è Milano come sottolinea Galli della Loggia. Lo ha capito perché l’Expo ha messo in moto un approccio diverso, interculturale e globale. Lo ha capito perché i due candidati proposti sia dal centro destra che dal centro sinistra erano simili anche se non uguali. Entrambi hanno parlato del futuro di Milano e non del passato. E, entrambi, possono contaminare positivamente i rispettivi schieramenti. E questo è un bene. Quello che sta succedendo in tutta Europa è sotto gli occhi di tutti. Il disorientamento dei “perdenti” della globalizzazione, non gestito, sta provocando reazioni che scardinano le politiche nazionali, ne provocano la rimessa in discussione facendo riemergere rigurgiti nazionalisti, populismi e chiusure difensive cavalcati con grave spregiudicatezza da forze politiche nuove non riconducibili alle tradizioni novecentesche. Questo scontro non lascia spazio né margini alle vecchie culture politiche se costrette nei loro recinti ideologici. O entrambe sapranno rigenerarsi attraverso un processo di convergenza sui temi principali (economia, migrazioni, lavoro e giovani) portando risultati credibili nei singoli Paesi e lasciando ad un secondo tempo le differenze su altri temi o dovranno capitolare davanti alle forze anti sistema. In Italia ci aspetta il referendum. È un passaggio importantissimo per il futuro del nostro Paese. Ed è il terreno sul quale le vecchie culture di destra e di sinistra hanno l’occasione di iniziare un processo di rigenerazione e di ripartenza. Per questo non credo nelle teorie che presentano come tripolare il nostro sistema. Al contrario, mai come in questo momento siamo di fronte ad un sistema bipolare. Da un lato chi vuole e può riformare il sistema dentro un disegno più ampio, dall’altro chi lo vuole abbattere. In italia però abbiamo una carta in più: i corpi intermedi con la loro rappresentatività sociale, la loro capacità di proposta e il loro radicamento territoriale. E i corpi intermedi possono dare un contributo importante. Mai come ora chi ha qualcosa da dire dovrebbe scendere in campo con determinazione e generosità. Non sono tempi di irresponsabili neutralismi. Il disorientamento e le paure di questa fase faranno emergere egoismi e rancori profondi che solo una grande unità di intenti di tutto il Paese potrebbe esorcizzare. Speriamo che questa necessità venga compresa e interpretata con forza.
Forse un giorno dovremo ringraziare gli inglesi….
In questi giorni prevale il risentimento. Chi mette in discussione lo status quo è comunque e sempre colpevole. L’assurdo è che fino al giorno prima del referendum questa Europa non piaceva a nessuno. Adesso è una sequela di insulti contro gli inglesi “vecchi e campagnoli”, i loro giovani pavidi che non sono andati a votare, contro gli stessi istituti democratici che, addirittura, non sarebbero adatti all’espressione della volontà popolare su temi di questa portata. Il tutto condito da opinioni legittime quanto legate ad un mondo che ha le sue radici nel ‘900 e che non riesce a interpretare il nuovo paradigma insito nella globalizzazione. La finanza mondiale e, di conseguenza le multinazionali, spostano interessi, produzioni e affari dove conviene loro mentre i singoli Stati pensano di continuare a “giocare” con i loro interessi particolari dettando regole difensive, presidiando confini obsoleti e rinviando ad un futuro remoto scelte e decisioni che, prese oggi, consentirebbero di incidere sulla qualità della democrazia, sull’ambiente e sul futuro dei nostri figli. La scelta della Gran Bretagna è solo la rappresentazione plastica di una realtà che ci riguarda tutti. Una politica minuscola non può competere con il disorientamento e le paure di milioni di individui. Ma la politica è minuscola perché in questa transizione lo spazio assegnatole è ridotto dai vincoli che essa stessa si è creata in rapporto alla globalizzazione e alla interconnessione economica. L’Europa delle banche e della finanza ha dettato le sue regole e ha reso il sogno europeo un succedaneo di quanto avrebbero voluto i suoi costruttori. Adesso gli inglesi, ci consentono, di fatto, una nuova occasione. Per questo non dobbiamo farci condizionare da un dibattito che, a noi, che non siamo chiamati a decidere nulla, ci fa migliori di quelli che in realtà siamo. Ha ragione Gianni Pittella: ora o mai più. Occorre mettere la mordacchia alla burocrazia di Bruxelles e muoversi con coraggio e determinazione. Senza prendersela con falsi colpevoli. I colpevoli veri siamo tutti noi. È vero che il popolo duemila anni fa scelse Barabba e non Gesù. Ma, vista con gli occhi di oggi, mai un popolo fece scelta fu più azzeccata. Anche se lo si è capito solo molto più avanti.