Se qualcuno nutriva aspettative su presunti spazi di manovra nel prossimo confronto sul nuovo modello contrattuale con Confindustria il Presidente Boccia, oggi, sul Corriere, ha sciolto ogni possibile equivoco confermando, di fatto, il suo appoggio alla posizione di Federmeccanica. L’elemento centrale del nuovo modello proposto, nelle intenzioni di Confindustria, dovrà essere caratterizzato dallo scambio salario-produttività con la sola funzione di garanzia affidata al contratto nazionale. La Brexit, semmai ci fossero stati dubbi derivati dai differenti comportamenti dei chimici e degli alimentaristi nell’era Squinzi, sembra chiuda definitivamente una stagione. E, per rendere ancora più chiaro il messaggio, Boccia dice chiaramente di essere intenzionato ad aprire il negoziato solo dopo la conclusione del contratto dei metalmeccanici. Quindi se non maturano nuovi elementi di riflessione tra i negoziatori sull’unica proposta presente sul tavolo, il rinvio in autunno della partita appare inevitabile. La stessa richiesta del segretario generale della FIOM Landini tesa a far scendere in campo la politica è destinata a restare senza risposta, soprattutto da oggi, quindi occorre prendere atto della complessità della situazione che sicuramente la Brexit aggrava. Personalmente continuo a pensare che la partita possa essere chiusa prima dell’estate e che sarebbe interesse di tutti concluderla prima che il costo per i lavoratori e per alcune imprese sia troppo alto o sproporzionato. Così come che la proposta di Federmeccanica consente spazi negoziali di manovra sufficienti pur restando nell’impianto presentato. Il punto vero è rappresentato dalle dimensione delle dinamiche retributive da definire per l’intera durata del prossimo contratto, come verranno determinate e cosa succede nelle imprese che, per varie ragioni, si dovessero sottrarre da negoziati aziendali. Stabilito questo che dà certezze alle aziende per il futuro, c’è da trovare una soluzione per il passato perché il passaggio da un sistema a doppio binario (nazionale e aziendale) ad uno a binario singolo (nazionale o aziendale) necessita comunque di essere metabolizzato. Su questo, insisto, manca una proposta sindacale esplicita e negoziabile. E quindi, delle due l’una, o l’obiettivo del sindacato è il semplice ritiro della proposta datoriale e il ritorno alla discussione su una delle due piattaforme presentate o la speranza di una conclusione positiva è affidata ad interventi esterni che, in qualche modo, conducano ad una mediazione che consenta ad entrambi di uscire alla meno peggio dal confronto in atto. Resto convinto che entrambe queste ipotesi siano dannose sia sul piano delle relazioni industriali sia sul piano della crescita di una nuova cultura tra capitale e lavoro. La fine del modello fordista ha conseguenze anche sul piano contrattuale perché credo sia evidente che stiamo andando verso un sistema fortemente differenziato tra settori che, nel tempo, porterà inevitabilmente a modelli nei quali ogni azienda opterà in base a necessità costruite su misura all’interno di regole generali definite dalla legge e dai contratti nazionali. Cgil, Cisl e Uil oggi, ed è comprensibile, cercheranno di aggirare il problema puntando ad accordi con le diverse associazioni datoriali che isolino la posizione di Confindustria e quindi di Federmeccanica. Ma i tempi sono cambiati. E la stessa Brexit non consente tatticismi. Questo è il tempo per leader che sanno alzare lo sguardo per costruire il futuro. Lo chiedono i lavoratori che aderiscono con convinzione alle iniziative del sindacato dei metalmeccanici e lo chiedono le imprese alle proprie rappresentanze. Ed è la qualità delle risposte che farà la differenza.
Vorremmo che non fosse una tromba a svegliarci! di Francesco De Lorenzis
Siamo andati a dormire abbastanza sereni e ci siamo svegliati in un incubo!
Il Regno Unito è fuori dall’Europa.
La tanto temuta Brexit si è realizzata e gli effetti economici che ne conseguiranno ancora nessuno sembra essere in grado di prevederli con precisione. Le borse intanto sono crollate!
La prima conseguenza tangibile c’è: mentre il leader Farage e l’ex Sindaco di Londra Johnson esultano per l’esito del referendum, il principale sconfitto, il premier Cameron, si è dimesso.
Dalle prime analisi dei voti sembra che a scegliere di uscire dall’Europa siano stati gli inglesi che sono più avanti con l’età! Quelli che ancora prendono il tè alle cinque per intenderci…
Sono stati proprio gli ultrasessantenni a determinare la vittoria del #Leave, coloro che meno di altri sembrano aver subito quelle che sono le “ingiustizie” delle politiche di austerity per cui si è contraddistinta l’Unione Europea.
Perché se è vero come è vero che le politiche europee, su quasi tutte le materie, negli ultimi anni non si sono contraddistinte per lungimiranza e volontà di guardare al futuro, è pur vero che coloro che ne hanno subito gli effetti più pesanti sono i giovani, quelli che nonostante tutto continuano a credere nel grande progetto degli “Stati Uniti d’Europa”
E speriamo che il prossimo 9 novembre non sia uno squillo di tromba (Trump-et) a risvegliarci bruscamente perché allora davvero il futuro sarà pieno d’incertezze per tutti.
Il PD, la disintermediazione e chi resta indietro…
Alla prima seria battuta di arresto del PD la minoranza interna ritorna immediatamente al Nanni Moretti del “di una cosa di sinistra!”. Bastasse questo… È vero che fa un certa impressione dover prendere atto che un partito di centro sinistra si afferma tra chi ce la fa e non incide più di tanto su chi resta indietro. Tra chi va all’estero e fa parlare di sé e non tra chi torna in silenzio sconfitto, tra chi lancia una start up e non tra chi in quella start up si appresta a vivere una ulteriore esperienza da precario. Tra chi amplifica il suo business con il commercio elettronico e chi chiude la sua attività tra un fisco opprimente e le pretese dei “cravattari”. Tra chi si porta a casa bonus milionari senza alcun merito e chi perde i suoi risparmi depositati nella banca di fiducia. E il nuovo termometro sociale di questa situazione diventa la rete. Con i suoi insulti, i suoi rancori e la solitudine di chi alza il tono della polemica con l’unico scopo di farsi notare. Certo c’è un Italia che crede nel futuro, che scommette su di sé, sul cambio generazionale e su chi vince. Per questa Italia Renzi è un solido punto di riferimento. Rottamatore, riformatore, solo contro tutti. Ma c’è un Italia che sembra essersi rassegnata e non ci prova nemmeno a farcela. Si sente tagliata fuori per colpa di un sistema nemico dove si vive in solitudine con i propri problemi e si sente contro tutti gli altri. Politici, istituzioni, stranieri ma anche chi cerca di farcela. E, nel Paese dello zero virgola del PIL in più e dell’occupazione che cresce o forse no, in un’Europa matrigna che ci tratta come scolaretti indisciplinati dove la ripresa economica rischia di riguardare solo alcuni, non è stato difficile indicare in Renzi il bersaglio grosso e facile da colpire. D’altra parte lui non si è sottratto a questo gioco al massacro. Ha lasciato crescere il malcontento nel suo Partito senza affrontarlo, ha individuato nemici dappertutto prima ancora che si manifestassero in tutte quelle associazioni e formazioni che, pur in crisi, hanno sempre costituito i grandi contenitori di partecipazione popolare collaterale del suo partito e ha scommesso tutte le sue fortune sulla crisi della leadership di un centro destra contando sulla possibilità di attrarlo sottovalutando così, non tanto la nascita di un nuovo contenitore politico del malessere né di destra né di sinistra, quanto il malessere stesso che iniziava a crescere nella società e che lui ha pensato di poter affrontare da solo con un manipolo di fedelissimi. Le teorie sulla disintermediazione risentono di questo approccio sbrigativo. Il blitz però, a conti fatti, non è riuscito. I corpi intermedi sono ancora lì, un po’ provati ma intatti nella loro forza propositiva e organizzativa, il centrodestra mantiene una base elettorale sostanzialmente intatta e anche poco disponibile a seguire il PD vecchio o nuovo che sia, anzi più propensa a giocargli contro. L’aver voluto giocare da solo tutta la partita ne amplifica ancora di più le responsabilità personali. Qui siamo. E in autunno ci aspetta un referendum importante dove le ragioni del “SI” e del cambiamento vanno ben oltre lo stesso Matteo Renzi e la sua esperienza politica e personale. Per questo è sbagliata la personalizzazione che si è voluta creare (e sulla quale Renzi ha delle precise responsabilità) intorno a quella scadenza. Personalmente non vedo, in questo momento, alternative serie a Renzi e al suo Governo e condivido che il referendum rappresenti uno spartiacque troppo importante per la credibilità del nostro Paese e quindi mi aspetto, come semplice cittadino, che il nostro Presidente del Consiglio prenda atto della necessità di rivedere la sua impostazione come peraltro alcuni segnali sembrerebbero già indicare. Il punto non è dar ragione ai suoi oppositori ma saper costruire un ponte realistico con la società, tutta la società. Anche con chi vive con smarrimento e preoccupazione questa fase di transizione. La convergenza deve essere con chi vuole veramente cambiare questo Paese, quindi con chi si appresta con motivazioni diverse a impegnarsi per superare la prova referendaria. Occorre far crescere nel Paese un dibattito vero sulle ragioni del cambiamento e sulla necessità di andare oltre gli scontri tutti interni alla politica e lontani dalla comprensione di chi i problemi concreti li vive tutti i giorni. Occorre riprendere a confrontarsi con i corpi intermedi per rilanciare un vero patto per lo sviluppo, dare fiato alle associazioni, costruire punti di convergenza vera, rinnovare i contratti di lavoro scaduti e dare segnali a chi resta indietro anche sul piano fiscale. La legge di stabilità sarà un passaggio importante. Occorre ritornare a parlare al Paese con onestà e sincerità. E su questo giocare le proprie carte. Il Paese ha bisogno di fondisti non di scattisti che si ritirano alle prime difficoltà.
Contratto metalmeccanici, un passo avanti e due indietro? Speriamo di no…
Lo scontro sul rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici non sembra in grado di produrre una possibile ricomposizione positiva e quindi una sua conclusione prima dell’estate. Il nodo non è di poco conto. Federmeccanica continua a ribadire con forza le sue buone ragioni alla base della proposta di “rinnovamento contrattuale” mentre dall’altro lato della barricata i sindacati insistono affidando agli scioperi proclamati la (im)possibile “capitolazione” in chiave tradizionale dell’interlocutore. È una situazione che rischia di riproporre la cultura tipica dei rinnovi contrattuali del passato pur in presenza di situazioni economiche e sociali profondamente diverse. L’incomunicabilità non serve a nessuno però, in questo contesto, credo non favorisca sopratutto il sindacato. E questo dovrebbe costituire, a mio parere, un importante elemento di riflessione. Le imprese sono impegnate in un grande processo di riorientamento organizzativo e culturale. Un processo complesso, difficile ma decisivo per il loro futuro. In una recente ricerca di Oxford Economics, un importante istituto di analisi economica per SAP che ha coinvolto oltre 21 Paesi i risultati sono evidenti e non si prestano ad equivoci. Se ci limitiamo solo ai temi riguardanti le risorse umane una delle sfide principali che devono affrontare le aziende (in tutto il mondo) riguarda l’insufficiente preparazione del management delle imprese nell’affrontare la digital transformation. Così come non stupisce che le risposte dei più giovani (a tutti i livelli professionali) siano profondamente diverse rispetto a quelle degli altri cluster coinvolti dalla ricerca. Essendo più motivati e reattivi ai temi dell’innovazione restano i più critici rispetto alla lentezza degli interventi di cambiamento e di engagement proposte dalle loro imprese. Questo comporta, inevitabilmente, la necessità di forti investimenti sulle competenze digitali, sul clima e sulla motivazione dei collaboratori, ai diversi livelli, da parte delle imprese. Quindi un forte investimento sulle risorse umane. Le proposte di rinnovamento contrattuale di Federmeccanica, per le aziende meccaniche del nostro Paese, non potevano che concentrarsi su questo e non possono che prevedere l’azienda come il luogo fondamentale dove queste politiche possono e devono essere messe in campo. Da qui la necessità di puntare sulla formazione, sul welfare e su forme di incentivazione e di coinvolgimento anche economico che non possono, proprio per le ragioni espresse sopra, essere puramente simboliche anche a causa dei costi del contratto nazionale in un contesto di bassa inflazione. Da qui l’idea di assegnargli una funzione profondamente diversa rispetto al passato. Federmeccanica non credo possa derogare più di tanto da questa impostazione. Ne va del mandato affidatole dalle imprese e quindi della qualità del rapporto associativo. Per questo motivo penso che, per il sindacato, giocare in modo tradizionale questa partita sia molto pericoloso perché spinge inevitabilmente le singole imprese a continuare a credere che sia meglio tenerlo “fuori dai cancelli”. Quindi verrebbe meno una possibilità importante di coinvolgimento e di collaborazione che poteva e doveva trovare nel passaggio contrattuale uno snodo centrale. La necessità, cioè, di costruire un quadro complessivo di riferimento collaborativo di tipo nuovo. La sfida, a mio parere, andrebbe colta fino in fondo. Altrimenti si rischiano di perdere opportunità importanti. D’altro canto anche Federmeccanica non credo abbia interesse a spingere i sindacati a riportare indietro le lancette dell’orologio. Non ha senso né logica. Nel contratto nazionale non c’è “solo” l’eventuale minimo salariale di garanzia. Ci sono i diritti e i doveri, il welfare di categoria, la formazione, l’inquadramento di riferimento, gli affidamenti necessari per le deroghe e gli spazi da assegnare al livello aziendale quindi c’è da comporre un quadro affatto scontato. Sul salario i problemi sul tavolo sono, sempre a mio parere, sostanzialmente due. Innanzitutto un problema di principio sulla funzione salariale da affidare al CCNL in un eventuale ipotesi che preveda comunque anche un decentramento vero della contrattazione. In secondo luogo quali passi possono essere fatti da entrambi per trovare un ragionevole compromesso che non snaturi l’impostazione complessiva. Per superare lo stallo occorrerebbe affrontare con decisione due ambiguità. Una per parte. Da parte sindacale non risulta chiaro se può essere accettata o meno l’idea che la ricchezza si distribuisce solo dopo averla creata. Sul versante datoriale non è assolutamente chiaro cosa succede nelle aziende che non intendono avvalersi della futura contrattazione a livello aziendale. In questo caso il minimo di garanzia non sarebbe sufficiente ma occorrerebbe prevedere inevitabilmente un meccanismo di compensazione. Lavorando su questi due punti credo che un compromesso sia individuabile. Come ho già avuto modo di sottolineare non sono tempi questi in cui è possibile alimentare una idea di scontro sociale né pensare di sconfiggere il sindacato trasformandolo in un avversario dell’innovazione e della crescita delle imprese. Non credo sia affatto così e non credo convenga a nessuno.
Intervista a Serena Buzzi di CFMT Formazione
Serena Buzzi, 33 anni da pochi giorni e da cinque in Cfmt. Nel 2015 ti è stato chiesto di rinnovare un percorso consolidato, importante e apprezzato dai nostri dirigenti quale era l’Accademia delle capacità manageriali. Il progetto prevedeva di rivedere i moduli formativi (tematiche, titoli, materiali, stile e approccio), la parte grafica e la comunicazione. Una sfida difficile ed impegnativa perché rinnovare una proposta che, tutto sommato, continua a funzionare non è mai facile.
Vediamo come è andata.
Serena, come si chiama e a chi è rivolto il nuovo percorso?
L’abbiamo intitolato Gymnasium manageriale, ed è rivolto a Dirigenti con un’esperienza professionale elevata che vogliono crescere in managerialità e leadership potenziando le capacità strategiche del ruolo ricoperto: gestione dei team, prendere decisioni, pensiero prospettico, orientamento ai risultati, creatività, networking, e gestione dei conflitti. Dal prossimo anno inseriremo un ulteriore modulo sull’errore come fonte di innovazione e crescita.
Come è organizzata la partecipazione al percorso?
Il progetto consta di 7 moduli formativi (1 giornata ciascuno), fruibili singolarmente, ovvero i Dirigenti sono liberi di partecipare a uno o più moduli, potendo recuperare le giornate mancanti in occasione di edizioni successive.
Quali strumenti vengono messi a disposizione dei partecipanti?
Prima di iniziare il percorso al Dirigente viene fornito un agile e sintetico strumento fruibile via web: la Bussola di orientamento, ovvero un questionario di auto verifica sulle competenze manageriali. In questo modo il Dirigente può comprendere come aderire alla proposta formativa per ottenere il massimo valore aggiunto possibile.
A circa un mese da ogni giornata d’aula, e quindi dopo aver acquisito tecniche e strumenti pratici con cui lavorare fin da subito, per chi ne farà richiesta, sarà possibile fissare un incontro di coaching individuale con il docente di ciascun modulo (effettuabile anche tramite Skype) nel quale verificare i progressi ottenuti e concordare una strategia di consolidamento. Infine, a chiusura del percorso, i partecipanti al 90% delle attività proposte, avranno la possibilità di compilare un nuovo questionario comportamentale (assessment a distanza)in grado di fornire un confronto con il profilo emerso originariamente dalla bussola, di fatto una verifica oggettiva del livello di miglioramento raggiunto.
Qual è il bilancio dopo due anni di cambiamento?
Abbiamo attivato 6 edizioni dell’intero percorso, di cui 4 a Milano e 2 a Roma, per un totale di 42 giornate d’aula, più di 100 coaching individuali, coinvolgendo 134 dirigenti partecipanti. Due edizioni sono attualmente in corso e si concluderanno entro l’anno.
Come è stato il riscontro dei partecipanti?
Il percorso, nel suo complesso, ha ottenuto un ottimo successo. Sia i report di feedback che le survey conclusive, ci dicono che per quanto riguarda la parte contenutistica, organizzativa e strutturale, le aspettative dei partecipanti sono state soddisfatte. In particolare sono stati molto apprezzati: la buona panoramica su aspetti “non tradizionali” del management, il metodo interattivo, la varietà delle modalità di docenza, e il coaching individuale. Inoltre molti dirigenti ci hanno poi riferito di aver utilizzato in contesto aziendale, con il proprio team, concetti e strumenti appresi in aula, confermando l’utilità e la concretezza della nostra formazione. Tutti i feedback raccolti sono sempre condivisi con tutta la Faculty: il lavoro di aggiornamento sui moduli tematici è continuo sia per ritarare eventuali incoerenze, sia per approfondire nuovi stimoli sorti in aula.
Da quali settori provengono i partecipanti e quanto costa partecipare a questo impegnativo percorso?
I partecipanti provengono dalle imprese del terziario di diverse dimensioni. I settori principali sono: tecnologia, servizi alle imprese, turismo, consulenza, logistica e grande distribuzione. I nostri partecipanti sono i Dirigenti a cui viene applicato il Contratto Nazionale del Terziario, firmato da Manageritalia e Confcommercio, che prevede il versamento a Cfmt di una quota annuale di 125 euro a carico del dirigente e una quota analoga a carico dell’azienda. Questo consente al Dirigente di partecipare a tutte le iniziative che ritiene utile per il suo percorso professionale, e alle aziende di costruire con noi percorsi su misura.
Come hai lavorato al progetto?
Il lavoro di riprogettazione è stato portato avanti a stretto contatto con la Faculty del progetto: i docenti sono tutti professionisti con cui collaboriamo da anni e con cui si è creato un rapporto di fiducia e stimolo reciproco. Per poter continuare a rispondere al meglio alle esigenze dei nostri partecipanti è molto importante mantenere aperto un dialogo critico e propositivo. Inoltre con le colleghe della Scuola di management abbiamo un confronto quotidiano, che ci permette di avere sempre una visione amplia e completa delle proposte formative attivate e del riscontro dei nostri partecipanti.
Per chi volesse saperne di più?
E’ possibile scaricare la brochure completa del percorso, e navigare sul nostro sito ( http://www.cfmt.it ) per cominciare a conoscerci.
Henry Ford tra gli scaffali della GDO? Si, ma ancora per poco…
Renato Curcio ha dedicato diversi libri al lavoratore della Grande Distribuzione Organizzata. Addirittura lo aveva elevato a nuovo potenziale soggetto rivoluzionario. Ha studiato per anni il rapporto tra lavoratore e azienda e tra lavoratore e cliente da lui considerato un “consumista isterico” e quindi paragonabile al “padrone” nella sua opera di pressione e sfruttamento dei lavoratori. Leggere i suoi scritti era (ed è ancora) veramente istruttivo per chi si occupava (e si occupa) di gestione delle risorse umane nel commercio per comprendere l’atteggiamento di molti lavoratori di una certa generazione verso i clienti in coda alle casse o di chi carica gli scaffali, dei banconisti o, infine, degli addetti alle pulizie. Nessuna indagine di clima allora avrebbe potuto sostituire la descrizione minuziosa di un rancore sordo e difficile da superare che per anni ha complicato qualsiasi intervento sul miglioramento della relazione con il cliente che le grandi catene cercavano di proporre nei comportamenti quotidiani. Il sociologo di Monterotondo si era appoggiato alla Uiltucs Uil milanese che lo aiutò in quegli anni a completare le sue ricerche sul campo concentrandosi soprattutto sulle realtà multinazionali di grandi superfici. Indagini prodotte negli anni 90 e che presentano uno spaccato del lavoro allora assolutamente sottovalutato da molti addetti ai lavori. In realtà non c’è stato in seguito alcun soprassalto rivoluzionario dimostrando che Curcio fosse più alla ricerca di conferme rispetto ad un suo pensiero maturato negli anni del carcere più che mosso dal desiderio di comprendere a fondo un soggetto sociale molto particolare che addirittura ha contribuito in seguito, seppur in minima parte, alla nascita di fenomeni politici e sociali esattamente opposti a quelli auspicati dall’ex BR. Dario Di Vico, in un articolo molto interessante sul Corriere di ieri conferma, nel lavoro della GDO, l’elemento di marcato fordismo che rende, quei lavoratori, in qualche modo assimilabili agli operai tradizionali dell’industria. L’esempio della cassiera di un ipermercato è ancora, in parte, calzante.Valutata più per la velocità con cui passava la merce alla cassa che sul rapporto con il cliente ha rappresentato la vera massa di manovra delle lotte sindacali della categoria negli anni che vanno dal 1980 fino alla fine del secolo scorso. Lotte derivate dalla esperienza sindacale fordista del settore industriale peraltro senza alcuna visione da parte del sindacato di categoria tesa a far crescere una nuova cultura sindacale più adatta ad un negozio in cui il servizio, in termini di qualità e quantità, era e resta fondamentale. Quando le cosiddette “conquiste” non sono state più compatibili con il contesto economico delle imprese, il sindacato prima ha cercato di difenderle, riservandole in esclusiva ad una sola generazione, poi ha dovuto inevitabilmente accettarne il loro superamento per tutti. E questo ne ha minato la credibilità. Oggi le aziende della GDO sono cambiate molto. Sia in termini di clima che di opportunità di crescita professionale. Le imprese nazionali e multinazionali investono ingenti risorse in formazione e sviluppo mentre i sindacati, soprattutto quelli che non hanno ancora abbandonato l’idea che fosse possibile difendere l’esigenze di una sola generazione sono stati messi, di fatto, alla porta. Le vicende legate al rinnovo del CCNL di Federdistribuzione sono lì a dimostrarlo. I residui di fordismo, ancora presenti, sono ormai in discussione. Ridotta la possibilità di confrontarsi con i concorrenti sul versante dei prezzi, della qualità e dei costi, le imprese stanno puntando su nuovi modelli organizzativi e di vendita, qualità del servizio, rapporto con il cliente sia in negozio che a domicilio. Senza parlare dei diversi comportamenti di acquisto indotti dai negozi di vicinato, dai discount, dai GAS, da internet e più recentemente dalle intenzioni di Amazon che non mancheranno di produrre profondi effetti e cambiamenti. Aziende come Carrefour, Esselunga, Finiper, Conad, Coop, tanto per citarne alcune tra le più conosciute investono in formazione e crescita professionale importi che le imprese più note del mondo industriale non impegnano più da tempo. Concordano forme innovative di welfare aziendale o sostengono, insieme ai sindacati e alle confederazioni datoriali, un importante welfare contrattuale di categoria, assumono e offrono opportunità di crescita ai giovani, fanno accordi con università come e quanto le imprese di altri settori. Non investono, però abbastanza nel presentare gli sforzi di questo impegno a 360 gradi per cui restano prigionieri di una opinione diffusa che assegna la qualifica di “povero” e quindi mal pagato, il lavoro che mettono a disposizione. Poco importa che per molte di queste persone, per condizione o per status sociale, non esiterebbero alternative concretamente praticabili. Così come per giovani studenti, per donne che abbisognano di flessibilità o che vogliono contribuire al reddito familiare. E, di fronte a questi cambiamenti sempre più forti e rapidi del settore il sindacato di categoria rischia di restare al palo perché non è in grado di accompagnarne l’evoluzione incastrato tra le esigenze delle imprese della Cooperazione, quelle di Federdistribuzione e quelle rimaste in Confcommercio. Qui sta il punto. O ci si rassegna alla crisi del fordismo e quindi alla crisi del modello che si è contribuito a costruire o ci si impegna ad accompagnare il cambiamento in atto. Il cambiamento del lavoro, dei modelli organizzativi, del rapporto con il servizio e con il consumatore, del riconoscimento del merito, del contributo del singolo lavoratore al successo del suo punto di vendita e della sua impresa e quindi della cultura sindacale o si continua ad inseguire questo o quell’interlocutore contando sulla disponibilità a sottoscrivere un contratto a qualsiasi costo. L’impegno delle Confederazioni sindacali e datoriali sul nuovo modello contrattuale è l’unica risposta seria che consentirebbe a tutti di superare lo stallo attuale trovando le risposte adeguate nell’interesse delle imprese e dei lavoratori. Il limite culturale del fordismo di marca sindacale è proprio quello di pensare che esista ancora una condizione comune di sfruttamento e di solidarietà tra uguali che, prima o poi, è destinata a manifestarsi. Non conosco l’organizzazione di molte imprese industriali ma basterebbe girare in un punto vendita qualsiasi della GDO per capire la ormai grande differenza tra capi reparto, specialisti, merchandiser, promoter, giovani assunti con le formule più varie di contratto con quello che resta della vecchia guardia sindacale. Henry Ford c’è ancora tra gli scaffali, questo è vero. Però sta per andare in pensione, Fornero permettendo.
P. S. A sottolineare ancora di più i cambiamenti in atto nelle imprese della GDO allego le recentissime 8 regole di Mario Gasbarrino AD di Unes per costruire un’azienda felice e vincente. Solo qualche anno fa, a leggere queste note, si sarebbe parlato di paternalismo o di un semplice esercizio di stile. Oggi, al contrario, fanno riflettere….
Giustizia e trasparenza: regole chiare-comunicazioni trasparenti-promesse mantenute
Attenzione al benessere: interessarsi sinceramente ai collaboratori-garantire luoghi di lavoro sicuri e piacevoli (sedie ergonomiche, ecc)
Sviluppo personale: formazione continua-attenzione ai talenti unici di ogni individuo-incentivare le idee e l’innovazione
Leadership e Management basati su valori e etica: proprietari e management che agiscono e vengono percepiti come modelli condivisi-fiducia condivisa nell’organizzazione e in chi li rappresenta
Responsabilità sociale: attenzione all’impatto che ha l’azienda sull’esterno (territorio, ambiente, fornitori, clienti, ecc.)
Reputazione: come l’azienda viene percepita-la fama che l’azienda ha, come se ne parla, quanto è conosciuta
Condivisione: degli spazi-oltre che delle informazioni-creare uno spirito di squadra fortissimo-trovare un senso comunitario
Uso del tempo: permettere alle persone di bilanciare professionale e personale
PER UN SISTEMA DI COLLABORAZIONE INTRAPRENDENTE TRA PARTI CHE CREANO INSIEME VALORE APPORTANDO RISORSE DIFFERENTI E COMPLEMENTARI by Enzo Rullani
1. Affrontare insieme la crisi
L’esperienza della crisi, che dura ormai da anni, ha fatto implodere i sistemi di relazione ereditati dal passato: in un capitalismo iper-frazionato come il nostro, tutto si è sfilacciato attraverso il (poco responsabile) gioco del cerino.
Se ciascuno cerca di passare agli altri il cerino acceso che ha in mano, sperando che a scottarsi siano loro, è facile capire come le relazioni tra committenti e fornitori, banche e imprese, lavoratori e datori di lavori, territori e sistemi produttivi in essi insediati si siano logorate e non reggano ormai più alla pressione degli eventi.
Molti anelli della catena produttiva cominciano a saltare o ad essere paralizzati, privi di capacità di risposta.
Un’evoluzione del genere mette in seria di difficoltà anche le strutture della rappresentanza, a cui oggi si pone un problema fondamentale: arrestare la disgregazione delle filiere produttive, delle relazioni sociali e dei sistemi territoriali, usando la loro capacità di generare senso e legami per invertire l’andamento delle cose, proponendo una logica di collaborazione tra le parti, sia nell’affrontare la crisi giorno per giorno, sia nel costruire un futuro comune che possa riattivare il meccanismo dello sviluppo, oggi gravemente inceppato.
Ma su quale terreno?
In un momento in cui il nuovo governo si dichiara disponibile a fare della logica collaborativa il suo codice di comunicazione e di azione, è importante che le parti sociali sappiano insieme offrire una piattaforma realistica, ma efficace, che indichi – alla politica e alle singole iniziative individuali – la strada da prendere.
2. La collaborazione intraprendente per uscire dalla crisi
Per quanto riguarda le iniziative anti-crisi, di effetto immediato, la logica della collaborazione implica certo una attenzione particolare agli anelli deboli del sistema produttivo e sociale, che rischiano di saltare e di essere emarginati dalla produzione di valore. La collaborazione solidaristica che ridistribuisce i costi delle crisi in base ad un principio di equità sociale – per cui ciascuno contribuisce in base alle sue possibilità – è il punto di partenza: ma basta?
Accanto a questo approccio, che fa leva sulla giustizia re-distributiva, bisogna fare anche altro.
Per due ragioni fondamentali.
Prima di tutto, ci sono dei limiti stringenti alle risorse pubbliche che possono essere destinate alla redistribuzione del reddito tra diversi bisogni e emergenze prioritarie (ammortizzatori sociali, fasce particolarmente penalizzate, misure tampone per il credito e i pagamenti della PA).
Il peso della fiscalità e dell’indebitamento pubblico riducono moltissimo lo spazio della redistribuzione possibile, oggi, e per gli anni a venire.
In secondo luogo, per fronteggiare gli effetti distruttivi della crisi, gli stanziamenti di denaro – specie se limitati – servono fino ad un certo punto: ci vuole di meglio e di più.
Contano soprattutto interventi che liberino la forza delle idee e dell’intelligenza collettiva, distribuita nelle molti fili del tessuto sociale.
Con una priorità: le imprese non devono morire, oltre la soglia del ricambio fisiologico, e la loro capacità di innovare e generare valore deve essere salvaguardata, nell’interesse di tutti.
Delle filiere a cui appartengono, dei lavoratori a cui danno occupazione, dei territori che le ospitano, delle banche che le finanziano, dei sistemi sociali che fertilizzano con le loro iniziative.
Per ottenere questo scopo, la redistribuzione del reddito e il potere di regolazione dello Stato contano fino ad un certo punto.
Forse sono presenti nelle crisi di maggiore dimensione e notorietà – e non sempre in modo efficace – ma certo non hanno un ruolo decisivo nelle tante piccole grandi crisi che riguardano l’impresa diffusa, lontana dei riflettori.
Qui gli strumenti per affrontare la pressione competitiva dei mercati sono altri, e riguardano le parti sociali direttamente coinvolte: bisogna condividere i rischi e le perdite, trovando un criterio ragionevole per ridimensionare certe attività distribuendo i sacrifici tra le molte parti co-interessate alla sopravvivenza di una certa impresa o di una certa fascia di attività.
E’ un processo difficile, in cui la contrattazione sociale può forse fornire la cornice normativa e logica: ma tocca alle singole persone, alle singole imprese, alle singole banche, ai singoli territori dire in che modo possono contribuire alla sopravvivenza ed eventualmente – in prospettiva – al rilancio di attività che non vogliono vedere chiudere o fuggire altrove.
La contrattazione aziendale ha già in molti casi trovato formule ragionevoli di distribuzione dei sacrifici che le parti in causa sono disposte ad assumere, in uno spirito di collaborazione mutualistica, di reciprocità, in vista di un interesse comune per la sopravvivenza.
Bisogna fare tesoro di queste esperienze anche se il loro contenuto è spesso una rinuncia, una riduzione delle aspettative e delle pretese contrattuali, un’accettazione di sacrifici che aiutano il sistema di cui di fa parte a non soccombere, di fronte alla crisi.
Ma certo, tutto questo non basta. La collaborazione solidale (redistribuzione politica e contrattuale del reddito, in nome dell’equità) e quella mutualistica (modificazione delle condizioni di lavoro e di reddito di ciascuno, in nome di un interesse comune alla sopravvivenza del sistema produttivo) servono ad evitare danni più gravi.
Non a guardare oltre l’orizzonte della sopravvivenza immediata.
3. La collaborazione intraprendente nella costruzione del futuro possibile
Se si alza lo sguardo sul futuro, si scopre una terza forma di condivisione: la collaborazione intraprendente nella costruzione del futuro possibile.
Questa collaborazione nasce dal fatto che, per mantenere i nostri livelli di occupazione e di reddito nel lungo termine, dobbiamo trovare il modo di aumentare di molto il valore co-prodotto dalle nostre imprese e dalle nostre filiere, in modo da compensare gli svantaggi di costo di cui soffriamo nei confronti dei concorrenti emergenti, e delle multinazionali che li utilizzano come parti delle loro filiere globali.
Questo aumento della produttività (valore prodotto per ora lavorata e per euro investito) richiede interventi correttivi importanti, rispetto alle tendenze spontanee del sistema produttivo esistente e dei modelli di business che esso ha espresso sin qui. In effetti, la produttività delle filiere che hanno base in Italia ha esaurito la sua crescita già nell’ultimo decennio del secolo scorso.
Da allora, anche prima della crisi 2008-13, ristagna. Segno di un disadattamento del nostro sistema rispetto alle forze che stanno portando avanti la transizione in corso, verso nuovi assetti competitivi e di reddito, nel mondo.
E’ per avere ancora chances su questo terreno – della costruzione del futuro comune – che serve la collaborazione intraprendente.
Ossia la collaborazione tra chi sviluppa progetti, investe risorse, assume rischi in vista di un traguardo comune, che riguarda – prima del singolo imprenditore-innovatore – l’impresa (con i suoi stakeholders, prima di tutto i suoi lavoratori), la filiera (con i suoi fornitori, committenti, distributori e consumatori), il territorio (con le istituzioni locali), l’economia della società nel suo insieme (espressa dalle differenti parti sociali).
4. Shared value: la nuova logica del valore condiviso
La logica di questo investimento condiviso sul futuro – in cui ciascuno deve fare la sua parte e assumersi i suoi rischi – è quella della co-produzione di valore, ossia del contributo delle parti in causa allo shared value richiamato di recente da Michael Porte e Mark Kramer come chiave della nuova competitività del nostro secolo.
Il valore è frutto di un processo di co-produzione delle conoscenze, delle innovazioni, dei beni e dei servizi che – nel loro sommarsi sinergico – danno valore, appunto, al nostro lavoro e al nostro investimento sul futuro.
E’ qualcosa che riguarda l’impresa, ovviamente, la cui intraprendenza – in termini di assunzione di rischi e di investimento sul futuro – è il punto di partenza del capitalismo imprenditoriale che abbiamo conosciuto sin qui.
Ma – ecco la novità – oggi è qualcosa che riguarda anche tutti gli altri attori che sono compresenti nel processo di co-creazione del valore. Riguarda il manager, ad esempio, che sempre meno visto come un “dipendente”, delegato ad eseguire ordini ricevuti dall’alto, e sempre più collocato, invece, in un ruolo di intraprendenza che lo vede collaborare con l’imprenditore assumendo rischi, facendo investimenti (sulla propria capacità professionale), ampliando lo spazio di autonomia nelle decisioni e nei problemi che gli vengono delegati.
Ma, sia pure con le ovvie differenze, questo processo di diffusione del rischio di investimento, dell’autonomia e dell’intelligenza produttiva riguarda un po’ tutte le posizioni di lavoro “dipendente” che diventano critiche per le aziende, nel rispondere in modo flessibile e creativo a problemi che è sempre meno facile prevedere e gestire dall’alto.
Il lavoratore dipendente è oggi in concorrenza – per le sue mansioni e i suoi livelli di reddito – con i molti lavoratori emergenti che si stanno affacciando sul mercato delle filiere globali.
La sua capacità di difendere i propri differenziali di normazione e di reddito dipende in misura sempre maggiore dallo sviluppo di capacità professionali differenziali – rispetto a quelle del lavoro prestato dai competitors globali – e questo richiede un investimento professionale e un percorso di apprendimento differenziali, tali da compensare l’extra-costo di partenza.
L’intraprendenza del lavoro, in termini di investimento e di uso della professionalità conseguente (in termini di rischio, autonomia, intelligenza), dà luogo ad un bisogno di collaborazione (intraprendente) con l’impresa, nello sviluppo delle innovazioni e delle esperienze di apprendimento possibili nel corso della carriera lavorativa di ciascuno.
Per reggere alla sfida, insomma, il lavoratore che vuole diventare intraprendente ha bisogno dell’impresa, con cui collaborare; d’altra parte, anche l’impresa, se vuole innovare in modo non banale, ha bisogno di coinvolgere i propri lavoratori – o almeno quelli disponibili – in una scommessa condivisa sul futuro possibile.
5. Il ridisegno (collaborativo) della trama delle relazioni contrattuali e sociali in termini di intraprendenza condivisa
Discorso analogo vale per le altre forme di relazione che sono presenti e attive nel sistema sociale.
Vale innanzitutto per le filiere, in cui committenti, fornitori e distributori devono far fronte comune nell’esplorazione del nuovo e del possibile.
Ma vale anche nei rapporti tra banche e imprese finanziate, in cui occorre assumere rischi condivisi e usare comuni linguaggi di valutazione degli stessi.
E diventa infine la nuova base di relazione nei rapporti tra imprese e territori, in cui la logica vincente è quella del co-investimento, cosa che presuppone la disponibilità a condividere rischi, nella logica della collaborazione intraprendente.
Le reti tra imprese – nelle filiere, nei territori o anche in sistemi di condivisione trans-settoriali e trans-territoriali – sono un modo per esplicitare contrattualmente questa logica di condivisione dei costi, dei rischi e dei benefici nella costruzione del futuro comune.
Ci sono, in effetti, molti modi per far valere questa condivisione intraprendente del futuro possibile.
Uno di quelli che potrebbe essere utilmente sperimentato è quello che deriva dalla costruzione di un sistema di prezzi e di condizioni contrattuali che consenta una automatica – e non conflittuale – distribuzione degli eventuali benefici e delle eventuali perdite, in funzione degli investimenti e dei rischi assunti da ciascuna delle parti in causa.
Se, ad esempio, impresa e lavoratori dipendenti assumono un medesimo progetto di competizione per il futuro, da questo progetto condiviso discenderanno impegni ad investire e a comportarsi in modo conseguente, per tutte le parti in causa, nella logica – appunto – della collaborazione intraprendente.
Prezzi e condizioni contrattuali possono variare nel tempo in modo consensuale, e non conflittuale (ossia secondo la logica del “cerino”).
Nel momento in cui il progetto arriva ai risultati attesi, le retribuzioni e le condizioni di lavoro potranno migliorare, ridistribuendo il risultato tra le parti coinvolte. Fermo restano che, in caso di insuccesso, retribuzioni e condizioni contrattuali dovranno adeguarsi, in modo da ridistribuire le perdite e i sacrifici conseguenti.
Criteri simili possono essere elaborati e proposti nei prezzi e delle quantità contrattate nelle filiere tra committenti e fornitori che vogliano elaborare una visione condivisa del futuro, e del percorso di investimento da seguire per arrivarci.
Ma si possono immaginare anche tassi di interessi e condizioni contrattuali variabili anche tra banche e imprese finanziate, in funzione dell’esito dei progetti su cui si fa una scommessa comune.
Lo stesso si potrebbe immaginare in termini di fiscalità, o di rapporto tra le imprese e i beni comuni che esse usano nei territori.
6. La società intraprendente (a venire) e le associazioni imprenditoriali (di oggi)
Le associazioni imprenditoriali hanno, in questo passaggio, un ruolo di grande responsabilità.
Prima di tutto, perché devono essere parte attiva nell’organizzare alcuni dei circuiti di collaborazione intraprendente sopra richiamati, che non possono fare capo alla singola impresa, ma richiedono la collaborazione tra molte imprese.
In secondo luogo, perché – nel momento in cui si sviluppano percorsi diffusi di condivisione collaborativa tra parti sociali differenti – è la società nel suo insieme che diventa società intraprendente.
Consapevole dei vantaggi e delle regole su cui si basa la condivisione degli investimenti, dei rischi e dei benefici affidati al futuro comune.
La logica imprenditoriale di investimento sul futuro va diffusa nell’insieme del corpo sociale, e – in questo – la cultura di impresa – centrata sulla produzione competitiva e a rischio di valore – diviene un riferimento essenziale per tutti, anche per le parti sociali che finora hanno praticato percorsi differenti, più solidaristici o distributivi.
Le imprese e le associazioni imprenditoriali che hanno sedimentato, nella loro storia, decenni di esperienza nella produzione intraprendente di valore, possono avere una posizione baricentrica in tale evoluzione, a condizione che mettano le proprie idee e capacità al servizio della costruzione condivisa di un futuro comune.
Nuove prospettive per il riformismo dei corpi intermedi
Sergio Bellavita neo dirigente USB ed ex dirigente FIOM CGIL lancia una sfida addirittura al Governo Renzi: “a settembre sciopero generale contro le politiche economiche e sociali imposte dalla UE a difesa della Costituzione e dei contratti nazionali”. Niente di meno. È la storia che si ripete. Prima i Tiboni, poi i Bernocchi, poi i Cremaschi. La galassia del cosiddetto sindacalismo di base si è sempre nutrita di una micronesia di situazioni cresciute intorno a personaggi profondamente diversi tra di loro e dall’estremismo da salotto televisivo chiaccherone ma spesso inconcludente. Pur con tutti i distinguo del caso le esperienze di persone o gruppi organizzati che si agitano a sinistra dei grandi sindacati confederali non è nuova né figlia della globalizzazione. È una storia iniziata fin dagli anni ’70. Chi esce sbatte sempre la porta e accusa chi resta del peggio del peggio. Perché registrarlo? Perché, secondo me, la mossa di Landini è da inserire in un disegno forse più interessante che può guardare lontano. Soprattutto può consentire anche alla Cgil di guardare lontano e di poter contare sulla FIOM, il che non è poco. È indubbio che il sindacato confederale sia in parte confinato e costretto a difendere, pur in mezzo a grandi difficoltà, le condizioni di vita e di lavoro delle generazioni che lo hanno costruito così com’è oggi, il loro modo di pensare e tutte le liturgie annesse che costituiscono la vita e l’agire delle grandi organizzazioni di rappresentanza. Questa difficoltà è, sia di azione, che di modello organizzativo. È evidente che una strategia praticabile presuppone obiettivi chiari e risultati certi oggi sempre più difficili da realizzare. Un mondo che mette in forte crisi forme orizzontali e tradizionali di solidarietà tra simili, siano essi nel Paese o nel resto del pianeta e favorisce forme nuove di convergenza di interessi tra capitale e lavoro un tempo inimmaginabili. Un mondo dove la rete di interessi da tutelare si scompone e si ricompone continuamente. E infine dove l’inclusione o l’esclusione dai diritti di cittadinanza, economici, di status sociale, non è più possibile ritenerli acquisiti anche quando, e se, raggiunti. Cosa saranno il lavoro (inteso come valore, modalità e contenuti), il welfare (vecchio e nuovo), l’istruzione (dopo la scuola e fino alla pensione), i diritti fondamentali di cittadinanza in un mondo globalizzato e in quale modo sarà possibile conquistarli e mantenerli per le differenti generazioni rappresenta la nuova frontiera per un sindacato che vuole essere autenticamente riformista. Le risposte possono essere molte e diverse tra di loro. Ma la vera partita del sindacato si giocherà proprio su questo. Ed è altrettanto chiaro che solo un sindacato che ritrova una prospettiva unitaria può ritornare ad essere autorevole sulla direzione di marcia da prendere. Questa prospettiva consentirebbe, tra l’altro, di mettere mano anche al modello organizzativo rimettendo al centro il territorio e le comunità locali che il processo di globalizzazione renderà sempre di più determinanti e vitali. Tra l’altro l’ultimo libro di Gaetano Sateriale della Cgil ne ribadisce il valore e l’importanza strategica. Marco Bentivogli si muove con altri dirigenti sindacali nella prospettiva di un forte sindacato industriale nella Cisl. Lo stesso Luca Visentini, neo eletto segretario generale del sindacato europeo, è impegnato a costruire un sindacato riformista e moderno in un’ottica sovranazionale. I modelli contrattuali, oggi in discussione, sono destinati ad andare proprio in questa direzione semplificando in termini quantitativi e di contenuto i contratti nazionali contribuendo a favorire l’affermarsi di una cultura maggiormente collaborativa tra mondo del lavoro, impresa e territorio. Dall’altra parte, anche dal mondo delle imprese qualcosa di importante si sta muovendo in questa direzione. Dalla Luxottica, alla Ferrero, alla Barilla, a molte PMI, stanno proponendo organizzazioni che riportano al centro la persona, il suo contributo al lavoro, la qualità, la quantità e la rimessa in discussione del luogo dove lo stesso si potrà svolgere. Nella stessa proposta di Federmeccanica ci sono importanti elementi che vanno in questa direzione. Insomma dopo aver toccato con mano i rischi e le difficoltà connesse ad un mondo che cambia troppo velocemente forse è possibile intravederne le opportunità non solo nelle imprese più attente ma anche per le organizzazioni di rappresentanza. Da qui la necessaria rivisitazione della governance dei sistemi bilaterali e di welfare condiviso. Impresa, territorio e comunità come cardini di un nuovo progetto riformista al quale i corpi intermedi potrebbero partecipare uscendo definitivamente dai vecchi confini e dagli steccati creati nel novecento. C’è un grande spazio per una nuova cultura della collaborazione. Una cultura che sappia rimettere al centro l’impresa come luogo di creazione del valore ma anche come luogo di condivisione. Un’impresa che, proprio per questo, rispetta l’ambiente, il territorio ed è parte della comunità nella quale è inserita. Un’impresa moderna, utile, eticamente determinante per la crescita delle persone che vi operano. Per fare questo, però, non basta qualche imprenditore illuminato. Occorre creare un contesto comune dove chi vuole giocare questa partita possa farlo con impegno e serietà. Ma occorrono anche corpi intermedi che sappiano guardare avanti anche oltre i loro pur legittimi interessi di parte. Quello che è chiaro ė che sempre più le convenienze e le aspettative della comunità dovranno coincidere con i nuovi equilibri che si individueranno tra i diversi soggetti che interagiscono e si confrontano nella comunità stessa. La capacità e il compito di individuare questi nuovi equilibri e definire le indispensabili priorità sociali spetta, ovviamente, alla politica. La proposta e l’iniziativa, al contrario, spettano a tutti coloro che vogliono ritornare ad essere protagonisti e giocare così un ruolo nuovo e costruttivo nell’interesse del futuro del Paese.
La formazione come diritto soggettivo…
Marco Bentivogli della FIM CISL ne rivendica giustamente l’intuizione nella sua categoria: mettere a disposizione di tutti i lavoratori, nessuno escluso, la formazione necessaria per rafforzare le competenze professionali e sviluppare le conoscenze in un sistema d’impresa proiettato verso Industry 4.0. Un elemento importante in un comparto che deve affrancarsi dal fordismo e dove, al di là delle parole, spesso i lavoratori sono stati considerati solo numeri. Federmeccanica, dall’altro versante non si è tirata certo indietro. A sua volta ha accettato e rilanciato la sfida. È un passaggio importante soprattutto perché “la persona” è uno degli argomenti centrali del rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. E, quel contratto, ha sempre indicato contenuti e direzione di marcia per tutti i settori. Nel terziario, è dal contratto nazionale dei dirigenti del 1993, che Manageritalia insieme a Confcommercio, diedero vita al CFMT, il Centro di Formazione Manager del Terziario. Centro nel quale ciascun dirigente ha diritto a frequentare individualmente i corsi proposti. La quota contrattuale annuale è di 125 euro a carico del dirigente e altrettanto a carico dell’azienda. Non c’è nessun limite alla partecipazione. C’è un diritto soggettivo definito nel contratto nazionale collegato alla responsabilità e ad una gestione individuale. Il dirigente può concordare il percorso con la propria azienda, se d’accordo, oppure utilizzare le proprie ferie. Così come l’azienda che ne può usufruire costruendo direttamente progetti su misura. È ovvio che si tratti di un intervento di nicchia (circa 22.000 dirigenti del terziario) ma non credo esista una esperienza a favore del management di queste dimensioni, a questi costi e di questa qualità, in tutta Europa. Da questa intuizione si è consolidata una realtà bilaterale, costruttiva, utile. Oggi è facile comprenderne l’importanza. Nel 1993 furono necessari visione, intuito e consapevolezza. Soprattutto l’idea che non bisognasse lasciare il manager solo in rapporto con la formazione necessaria alla sua crescita professionale. Oggi questo problema riguarda tutti perché l’aggiornamento e la formazione continua restano fondamentali per muoversi nel mercato del lavoro. Nel 2002 pochi anni prima di lasciarci Bruno Trentin ad una lectio doctoralis in Cà Foscari affermò: “… il rapporto tra lavoro e conoscenza (è uno) straordinario intreccio che può portare il lavoro a divenire sempre più conoscenza e quindi capacità di scelta e, quindi, creatività e libertà”. Interrogarsi su ciò che serve oggi a ciascun lavoratore, indipendentemente dalla sua qualifica, dal giorno dopo il conseguimento del titolo di studio e fino alla pensione diventa, sempre più, un tema centrale. E questo sia sul versante dei contenuti che delle metodologie. Professionalmente si vive più a lungo e si cambia più spesso lavoro per volontà o, sempre più spesso, per necessità. Il paradosso è che, le persone, oggi sono destinate a vivere più a lungo delle imprese. Non era mai successo in passato. Questo significa che investire su se stessi, sulla propria professionalità e sulla capacità di misurarsi con il mercato costruendo relazioni utili e positive non è più un obiettivo solo di chi vuole fare carriera ma diventa un passaggio obbligato per tutti. Frequentare community, avere un personal brand riconosciuto, aggiornarsi e gestire con attenzione il proprio percorso professionale si trasforma in una attività alla quale va dedicato tempo, impegno e concentrazione. Farlo in solitudine non è facile. Soprattutto per chi non lo ha mai fatto. La persona, oggi, si misura con un mercato del lavoro molto più complesso e selettivo rispetto al passato. Un mercato nel quale il percorso o la crescita in una singola azienda è solo una tappa. La carriera ha sempre più discontinuità e segue traiettorie sempre diverse. Competenze professionali e soft skill si devono aggiornare continuamente determinando nuove priorità. L’impresa ha un obiettivo formativo che condivide con il collaboratore ma, quest’ultimo deve investire anche sul suo futuro professionale sapendo andare anche oltre le esigenze dell’impresa nella quale è occupato. È questo non può più essere sottovalutato dai contratti collettivi e quindi nel nuovo scambio tra impresa e singolo lavoratore. Difendere e incrementare la competitività professionale: questa è la sfida per le imprese e per le singole persone. Per le imprese questa sfida passa dalla capacità di collegare ciò che i clienti apprezzano nei prodotti e nei servizi (cioè la competenza distintiva dell’impresa stessa) aggiornando continuamente le differenti competenze professionali dei diversi attori aziendali. Per i singoli collaboratori la sfida è rappresentata dalla capacità di sottoporre ad un aggiornamento e un miglioramento continuo il proprio bagaglio di competenze e quindi della propria capacità di risolvere i problemi. Per fare questo non è sufficiente affidarsi alle istituzioni professionali tradizionali ma presuppone anche un cambiamento culturale. È la cura del proprio patrimonio professionale che rappresenta, sempre di più, una leva insostituibile. Ma questa leva si aziona solo se la persona adulta riflette sul proprio processo di apprendimento, ne comprende i processi che lo facilitano, lo finalizza ponendosi sempre nella condizione di valutarsi e di correggersi, se necessario. Secondo il saggista americano Alvin Koffler “Gli analfabeti del futuro non saranno quelli che non sanno leggere e scrivere ma quelli che non sapranno imparare, disimparare e imparare di nuovo.” I dati parlano chiaro. Gli effetti della quarta rivoluzione industriale comporteranno nuove attività nei prossimi cinque anni che creeranno circa due milioni di nuovi lavori. Purtroppo circa sette milioni di posti di lavoro saranno distrutti e questo al netto di eventuali nuove crisi. Essere preparati a questi passaggi epocali non è solo un problema che riguarda i giovani o gli altri. Riguarda tutti.
Grande Distribuzione e contratto nazionale, come uscirne..
Credo sia ormai chiaro a tutti che la stagione della contrattazione nazionale nel terziario si è chiusa con il rinnovo del CCNL firmato da Confcommercio e dalle organizzazioni sindacali di categoria circa un anno fa. Due aspettative (importanti) restano però ancora senza risposta. La richiesta della GDO della Cooperazione di applicare un CCNL simile a quello firmato da Confcommercio respinta dai tre sindacati di categoria e la richiesta dei tre sindacati di categoria di avere un contratto simile a quello firmato da Confcommercio respinta da Confesercenti e Federdistribuzione. È una situazione, per certi versi, paradossale. Ci sono imprese dello stesso settore che applicano il nuovo contratto e altre che non lo applicano. Federdistribuzione, da parte sua, lamenta che il contratto firmato da Confcommercio non sarebbe applicabile dalle aziende che si riconoscono nelle loro organizzazione mentre lo è per molte aziende della GDO, leader di settore, che si riconoscono in Confcommercio e che lo applicano da circa un anno. E la Cooperazione che vorrebbe applicarlo anch’essa e da subito, non può. In tutto questo i rispettivi lavoratori ne pagano le conseguenze. Se usciamo per un attimo dalle differenti logiche organizzative, legittime quanto inconcludenti e guardiamo avanti forse possiamo trovare uno nuovo spazio di confronto e di azione che consenta di superare lo stallo, nel quale ci si è voluti infilare, sottovalutando il contesto. A mio modesto parere la disponibilità a chiudere questa fase dovrebbe essere interesse di tutti gli attori coinvolti. Per fare questo occorrerebbe innanzitutto rimettere al centro le esigenze delle imprese e dei lavoratori. Non c’è altra via. Un contratto nazionale non si firma più da tempo esclusivamente sulla base dei reciproci rapporti di forza messi in campo. Quindi non saranno né gli scioperi né le cause legali né l’imposizione di una dura condizione non negoziabile al sindacato che sbloccheranno questa situazione. Né continuare a ritenere che lo stallo sarebbe causato da indebite pressioni di chi ha già firmato il suo contratto. Basterebbe mettere in fila le richieste delle due organizzazioni datoriali prodotte in tutti questi mesi puntualmente respinte dagli stessi sindacati di categoria per capire quanto è fuorviante nascondersi dietro questa scusa. Queste forzature tese a ottenere rinnovi contrattuali alternativi sono nate in una fase economica e sociale completamente diversa. Così come è ingenuo credere che avere quattro contratti nazionali per poco più di trecentomila addetti, di questi tempi, possa rappresentare un scelta razionale. E infine pensare che chi, come Confcommercio, ha firmato per primo un difficile rinnovo possa subire una iniziativa di dumping da confederazioni minoritarie o federazioni di secondo livello senza alcuna possibilità di modificare gli equilibri raggiunti con gli accordi a suo tempo sottoscritti. Oggi siamo qui. Su altri tavoli sta decollando un importante confronto tra le diverse parti sociali sulla contrattazione, i suoi contenuti e i suoi livelli. Quindi anche sul peso dello stesso contratto nazionale di categoria. Questo negoziato è condotto dalle Confederazioni datoriali e sindacali. Solo all’interno di questo percorso si definiranno regole, compatibilità e livelli della contrattazione. Molte cose sono destinate a cambiare. C’è il tema del welfare, del contenuto e delle modalità dei livelli aziendali, territoriali e delle differenze significative presenti nei comparti del terziario di mercato da prevedere e da gestire. Quindi se i diversi interlocutori comprendessero il cambio di scenario, alzassero lo sguardo e guardassero avanti le possibilità di rientrare in gioco ci sono tutte. Per fare questo occorrerebbe avviare un confronto serio, senza pregiudizi superando incomprensioni ormai datate e abbassando la ormai inutile tensione ancora presente. Concentrarsi su come uscire da questa situazione è più importante, oggi, di qualsiasi recriminazione sul passato. Quello che però deve essere altrettanto chiaro è che un Contratto Nazionale non può essere vissuto come una vecchia osteria di Trastevere dove ciascuno portava il pranzo da casa limitandosi a consumare solo il vino. È qualcosa di molto più serio e profondamente diverso. C’è un vecchio proverbio africano che dice “Chi vuole sul serio ottenere qualcosa cerca una strada, gli altri una scusa”. A mio modesto parere oggi siamo esattamente a questo punto.