Politiche attive, risorse ed efficienza sono fondamentali ma non bastano

I telefilm polizieschi tedeschi ci presentano quotidianamente una Germania non troppo dissimile dall’Italia. Tra il commissario Voss e Montalbano è solo la latitudine a renderli diversi. Non l’arguzia e la rapidità con cui risolvono i casi più complicati.

Una recente serie su RAI 2 (Ultima traccia: Berlino) ha proposto un episodio (Ostaggi) dove si racconta il dramma di un disoccupato alla ricerca di un lavoro. Tema, anche in Germania, di grande attualità.

In un ufficio di collocamento pubblico (Arbeitsamt) tra proposte di inutili corsi di formazione studiati più per soddisfare i formatori e speranze deluse dei partecipanti, atteggiamenti burocratici e piccole miserie degli impiegati addetti, si sviluppa un storia assolutamente credibile. Potrebbe essere proposta ovunque.

A parte la trama forzata per condensare, in venti minuti, una storia, l’epilogo drammatico tra sequestro degli addetti e morte del disoccupato stesso, il racconto mostra uno spaccato interessante perché propone una realtà ben diversa da quella suggerita, da chi vorrebbe presentare il sistema tedesco solo come un esempio di efficienza, organizzazione e di razionalità teutonica anche nel campo delle politiche attive.

Corsi di formazione inutilizzabili, atteggiamenti discutibili dei ricollocatori, scarso rispetto per le persone proprio nel momento più esposto sul piano psicologico, assurdi formalismi burocratici. Certo, si tratta solo di un telefilm. Però non è fantascienza.

Rappresenta la cruda realtà vista dal punto di osservazione di chi entra in quegli uffici per usufruire del servizio. Non di chi lo gestisce. 

Non è l’efficienza la sola caratteristica da ricercare o da imitare in queste strutture e per queste attività quanto l’efficacia. Il lavoratore, quando entra in una situazione di disagio perde ogni punto di riferimento e non bastano comunicazioni rassicuranti, impegni politici, risorse adeguate e impiegati efficienti. Occorrono persone che sappiano ascoltare e capire. E luoghi adatti a renderlo possibile.

Anche per questa impersonalità  l’assegno di ricollocazione pur decollato da poco, rischia un serio flop. Le ultime notizie di stampa dicono che il 90% di coloro che hanno i requisiti, e quindi hanno ricevuto una lettera, ha deciso di non proporsi.

Le due esperienze più importanti alle quali ho partecipato riguardano una operazione di ricollocamento in un’azienda industriale gestito con il sindacato di categoria (1400 persone coinvolte) e una gestita, sull’intero comparto del terziario di mercato dal sindacato dirigenti Manageritalia (circa 1200 dirigenti). In entrambi i casi la presenza attiva e propositiva del sindacato si è rivelata una scelta assolutamente fondamentale.

Nel primo caso l’impegno diretto dell’azienda che dichiarava gli esuberi, si è rivelata una scelta vincente. Nel secondo, trattandosi di dirigenti, condividere, con i colleghi di altre aziende, obiettivi e metodologie ha funzionato ben oltre le performance dell’outplacement classico.  Qui sta il punto vero. C’è sicuramente un problema di risorse pubbliche da mettere a disposizione e di organizzazione delle politiche attive ma resta da affrontare il livello di corresponsabilità nel percorso di soluzione delle aziende e del sindacato che spesso concordano il numero degli esuberi ma che poi si fermano lì. Non condividono neanche la fase iniziale del percorso di ricollocamento.  E proprio nel momento più delicato.

Una persona espulsa dal “suo” posto di lavoro, convinta di essere stata scaricata da tutti, non è in grado di reagire immediatamente. Pensa ad una nuova fregatura. Per questo l’azienda che dichiara esuberi dovrebbe assumersi delle responsabilità almeno nella gestione della prima fase di uscita dei propri collaboratori. Non solo sul piano economico.

Così come il sindacato che ha sottoscritto l’accordo. In un sistema efficace e moderno queste responsabilità andrebbero inizialmente gestite insieme. Istituzioni, azienda e sindacati.

Nella grande impresa, direttamente dalle parti firmatarie mentre nella piccola si potrebbe intervenire, almeno nelle fasi iniziali propedeutiche all’outplacement, anche attraverso un  supporto della bilateralità. Questo flop (forse) è salutare. Servirà  non solo all’ANPAL per prendere le misure di un problema nuovo.

In Germania come in Italia chi perde il lavoro deve essere aiutato immediatamente  a ritrovare una fiducia in sé stesso e una volontà di ricominciare che si manifesta solo se gestita condividendo collettivamente e a più voci il problema. Soprattutto guardando in faccia la persona.

Trasformare un sistema radicato di politiche passive dove l’individuo  è lasciato solo in balìa del suo problema ad una nuova impostazione non è semplice per nessuno. Va accompagnato e condiviso. Almeno in una prima fase.

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