Relazioni industriali tedesche e loro trasferibilità.

Il nostro è uno strano Paese. Sui braccialetti di Amazon siamo stati gli unici a scatenare l’inferno su una cosa che non esiste.

È vero che c’era la scusante della campagna elettorale. Ma il senso del ridicolo avrebbe dovuto frenarci in qualche modo. Così non è stato. All’ILVA un accompagnatore dell’assessore Mazzarano del PD aggredisce Marco Bentivogli perché sta cercando di salvare una fabbrica che buona parte del PD regionale vorrebbe scomparisse dai loro occhi senza però volersene assumere la responsabilità.

Ai lavoratori della Embraco, incolpevoli attori protagonisti di una delle conseguenze della globalizzazione, mentono quasi tutti i soggetti in campo limitandosi a minacciare verbalmente la multinazionale proprietaria per prendere tempo sperando in una soluzione terza a cui nessuno, di chi oggi grida allo scandalo,  ha mai pensato fino all’apertura della procedura di licenziamento.

Alla Castelfrigo, ormai sempre più simile ad una periferia siriana dove la giusta guerra alle cooperative spurie (che operano lì e altrove da almeno qualche decennio) nasconde uno scontro tra sigle sindacali che nessuno sembra voler ricomporre.

Così come alla Stef di Mariano a Casaletto dove la guerra è tra SI Cobas e confederali uniti. Lascio perdere, per carità di Patria le proposte elettorali sul lavoro dei rispettivi partiti politici a caccia del voto operaio.

Certo ci sono anche buone notizie come i contratti nazionali firmati recentemente e ultimo ma non ultimo quello del contratto nazionale dei pubblici esercizi. Lo stesso documento Calenda/Bentivogli va in questa direzione ma sembra aver già esaurito la sua spinta propulsiva travolto da mirabolanti promesse da marinaio provenienti da tutte le parti.

Nonostante questi segnali, pur importanti, il contesto politico e sindacale non presenta affatto uno scenario evolutivo positivo. Né attrattivo per le imprese multinazionali, né favorevoli alla crescita delle imprese, né in grado di mettere al centro il lavoro.

E, infine sembra più caratterizzato da un clima di competitività che di collaborazione tra le organizzazioni di rappresentanza. Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria lo ha detto chiaramente nella sua intervista al Corriere” “Dobbiamo costruire un percorso che si nutra di fiducia reciproca e che metta tutti noi, imprese e sindacati, nella condizione di collaborare per recuperare competitività”.

Qui sta il punto.

Se il nostro sistema non recupera competitività non si va da nessuna parte. Da qui la mia riflessione sul modello contrattuale tedesco che continuo a ritenere non esportabile da noi se non alla conclusione di un percorso collaborativo come quello proposto (non solo) dal Presidente di Confindustria.

Innanzitutto le divergenze di strategia e la competitività tra sigle sindacali rendono particolarmente diffidenti gli imprenditori, già poco propensi in sé, ad innovare il sistema. I rapporti di forza si sono ormai ribaltati, la contrattazione decentrata è relativamente marginale e i modelli di coinvolgimento e collaborazione possono costruirsi comunque. Anche senza il sindacato.

Se prendiamo, ad esempio, solo il termine “volontario”, molto utilizzato nelle discussioni entusiastiche seguite alla firma del Baden Württemberg non possiamo non comprenderne la differenza qualitativa e di contesto tra Germania e l’Italia.

Il lavoratore tedesco potrà probabilmente chiedere di ridurre o di aumentare il suo orario di lavoro solo perché è inserito in un contesto collaborativo dove quel termine assume un significato specifico.

Non è un diritto semplicemente da rivendicare né prescinde dall’organizzazione del lavoro, dalla stato di salute dell’impresa ed è calato in un mercato del lavoro che supporta questo cambiamento.

Da noi non esiste nulla di tutto questo. Quindi è inutile trasferire una illusione. Semmai occorrerebbe lavorare per creare quel contesto. Qualcuno si dimentica che nella tornata precedente gli stessi negoziatori tedeschi rinunciarono alle richieste economiche perché quello era il patto.

Oggi gli imprenditori tedeschi, hanno rispettato quel patto e hanno “ceduto” sul salario in maniera significativa. In Italia, nel comparto Gomma Plastica, una interpretazione legittima quanto non condivisa dell’art. 70 del CCNL (valore tranche contrattuale), ha portato a scioperi pesanti, in un settore in ripresa, ben superiori agli importi in discussione per una questione di principio. Difficile non fare paragoni.

Il recente contratto nazionale dei pubblici esercizi, appena rinnovato, conferma il carattere “win win” del modello italiano. Però ci sono voluti cinque anni per capirlo e accettarlo. La diversità del contratto nazionale dei metalmeccanici italiani sta proprio nella consapevolezza (di entrambe le parti) che il modello fordista è ormai al tramonto e che occorre superarlo rimettendo al centro una diversa cultura dell’azienda e del lavoro.

Entrambe le parti però dovranno cambiare e non sarà un cambiamento facile e lineare. E questo produrrà fratture nelle strategie e nei comportamenti dei differenti sindacati ma anche nell’associazionismo delle imprese. Che lo si voglia accettare o meno, è la competitività delle nostre imprese il driver principale da cui discendono coerenze, conseguenze e comportamenti.

In questo contesto, diritti e doveri, rispetto della dignità e della crescita professionale e personale, corresponsabilità e condivisione potranno assumere un significato diverso dal passato. Senza questo passaggio che è innanzitutto culturale non si esporterà proprio un bel nulla.

Oppure se ne esporterà la filosofia di fondo senza il sindacato protagonista laddove le imprese più aperte e convinte saranno disponibili a farlo.

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