Responsabilità dei manager, delle imprese e dei sindacati di fronte alla crisi della grande distribuzione

  • Quando un’azienda precipita in una crisi senza sbocco le responsabilità del management e della proprietà che l’hanno causata passano velocemente  in secondo piano. Non ci sono mai nomi e cognomi e se vengono individuati sono già altrove. Pronti a ricominciare daccapo. Se appartengono a compiacenti cordate internazionali vengono ricollocati in altri Paesi. Per chi resta sono guai.

Per una parte del middle management c’è il nuovo carro su cui saltare. Per “l’hombre vertical” o per chi ha mercato, come si usa dire in azienda, “il dissenso si manifesta con le dimissioni”. In tutti coloro che non hanno alternative c’è solo voglia di voltare pagina.

Se la crisi è però profonda o chi acquisisce non prevede di avvalersi del management aziendale parte una fase dove gli zombie si materializzano. Gole profonde, segreti di pulcinella, minacce larvate di improbabili cause milionarie e, da quando impazzano i social, anonimi celati dietro pseudonimi fantasiosi  per paura di sporcarsi i polsini della camicia che distribuiscono voti a destra e a manca.

Personaggi simili a quelli del  film Yes Man del 2008 interpretato da Jim Carrey il cui tratto caratteristico, sul piano  professionale, è solo di aver detto sempre “sì” a chiunque. E sarebbero pronti a continuare a farlo anche oggi. Se considerati. Messi però fuori gioco dal contesto tentano di strumentalizzare il difficile compito di chi subentra nella gestione e dei sindacati.

Il loro obiettivo non è né l’accordo né i posti di lavoro. È il loro interesse personale. Che non può certo essere quello definito dagli accordi sindacali. Nemmeno quello dei dirigenti. Of course. Il danno che provocano è relativo. Purtroppo danneggiano i colleghi perché insinuano nel management subentrante la convinzione che è meglio sbagliare da soli che fidarsi degli interpreti, loro malgrado, del passato.

Per giudicarne la correttezza  basterebbe risalire solo a pochi mesi fa. Quanti di loro hanno brandito anonimamente i social contro i manager co-autori del disastro? Ovviamente nessuno. Ecco. Chi se la prende con i sindacati chiedendo loro dove erano dovrebbe porsi anche questa domanda. Dove erano i manager tuttologi che oggi scuotono la testa (in segreto) contro i nuovi arrivati? O contro chi, come il sottoscritto o altri ne difendono la legittimità d’azione.

I sindacati sono, fortunatamente, altra cosa. Purtroppo ininfluenti nelle crisi aziendali. Contestare la scarsità degli scioperi proclamati o sottolinearne il numero è una contabilità inutile. Il declino di un format commerciale o di un’azienda commerciale piuttosto che una loro affermazione non c’entrano nulla con il ruolo del sindacato.

Tra dieci anni esisteranno gli stessi format di oggi seppure modificati. Se ne aggiungeranno altri e si integreranno con l’on line. Il negozio Amazon di Seattle senza casse non ha diminuito l’organico ne ha solo modificato la professionalità richiesta.

Il sindacato del comparto può essere accusato di non essere all’altezza di queste trasformazioni, di subirle, di affrontare la realtà con lo specchietto retrovisore. Non certo di non essere in grado di orientarne lo sviluppo. O di impedirne la crisi. Semplicemente perché non può farlo.

C’è sicuramente un problema di professionalità del dirigenti sindacali del comparto. Nel sindacato industriale la conoscenza dei processi e dei settori è ritenuta essenziale. Quindi la provenienza aziendale e il percorso di crescita sono determinanti e la formazione sindacale non si limita alle competenze negoziali o a qualche convegno con esperti.

I sindacalisti dei chimici o dei metalmeccanici conoscono a fondo  i loro settori e le imprese. La gavetta è lunga e questo forma ad una visione a 360°. Condivisibile o meno. Ma questo è un altro discorso.  Il terziario è un campo troppo vasto per consolidare professionalità specifiche adeguate. Il modello prevalente conta quasi esclusivamente  sulle capacità negoziali dei singoli sindacalisti. Non sul loro CV. È quindi un profilo più tradizionale. Vicino o lontano dalla cultura delle aziende a seconda delle persone.

La fase di crescita senza limiti ha contribuito a costruire un modello sindacale in grado solo di accompagnare questo sviluppo, di trarne vantaggi organizzativi ed economici (attraverso la bilateralità), di creare gruppi dirigenti forti e coesi al loro interno che hanno retto anche la prima parte del declino concedendo alle aziende la possibilità di riorganizzarsi.

Ma le aziende non sono state affatto riconoscenti. Hanno preso senza concedere più di tanto. Né hanno investito sulla qualità delle relazioni sindacali. E questo è stato il grande errore delle imprese del comparto. È la fase in cui i sindacati di categoria hanno subìto un forte spostamento del rischio di impresa dalle aziende al singolo lavoratore. Dove il costo del lavoro si è trasformato in un’ossessione anche laddove non rappresentava un problema centrale. La forte flessibilità in entrata, la differenziazione tra vecchi e nuovi assunti, l’obbligatorietà al lavoro domenicale spesso senza alcun riconoscimento economico e turnazione,  le riorganizzazioni  e le chiusure di PDV hanno prodotto due effetti che combinati tra di loro sono stati dirompenti.

Il consolidamento del fenomeno del lavoro povero e del part time involontario sedimentati in ben quattro contratti nazionali (più una pletora di contratti pirata a livello locale) e il tramonto della contrattazione aziendale. Le imprese hanno relegato il sindacato ad un ruolo marginale coinvolgendolo solo quando è stato  indispensabile ma evitandone il coinvolgimento sui temi strategici dello sviluppo del settore, della produttività, della formazione e della crescita professionale che sono stati gestiti sicuramente bene ma in  solitudine  dalle singole insegne. E questo ha pesato sull’immagine complessiva del settore. Che al contrario, sul piano dello sviluppo professionale dei collaboratori, della responsabilità sociale e della relazione  con i territori ha fatto e sta facendo sforzi importanti.

Tra poco si aprirà stagione dei rinnovi dei contratti nazionali. Valorizzazione del welfare contrattuale, riconoscimento del contributo  dei lavoratori e diritto/dovere all’impiegabilità dovrebbero caratterizzarne il contenuto. Il timore che si parli ancora una volta  solo di costi è molto alto.

Il contratto nazionale del terziario ha però un futuro se affronta i temi centrali del lavoro oggi. Altrimenti è giusto che altri protagonisti se ne facciano carico. 

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