C’è qualcosa che non quadra nella discussione che frappone le parti sociali contrarie al salario minimo e i sostenitori dello stesso. Per questo fa bene Giuseppe Sabella a sottolinearne i limiti (https://bit.ly/2My2wNI). Non è più sufficiente, come pensano alcuni, ribadire la volontà di mantenere l’intera materia nelle mani della rappresentanza sociale ed economica senza però proporre un’idea condivisa di ciò che questo significa.
È vero che da un lato la contrattazione nazionale copre circa l’80% dei lavoratori dipendenti e che quindi il tema è semmai come tutelare la quota mancante ma, il discorso quantitativo e apparentemente semplice, si scontra con quello qualitativo difficilmente risolvibile.
I contratti nazionali hanno preso, grosso modo, due strade diverse. Da una parte quelli che hanno cercato di mantenere un equilibrio tra le esigenze delle imprese e quelle dei lavoratori. Dall’altra quelli che, sfruttando l’asimmetria dei rapporti di forza, ne hanno messo in discussione le fondamenta concentrandosi, di fatto, esclusivamente sul costo del lavoro. Entrambi i modelli hanno generato figli e figliastri. Dal contratto di FCA passando a quello di Federdistribuzione fino ad arrivare ai cosiddetti “contratti pirata”. Tutti figli legittimi di scelte precise.
Ma questa proliferazione non ha colto né l’emergere di nuovi modelli che forzano il confine tra le tipologie classiche del lavoro di oggi (dipendente e autonomo) né ha stabilito i necessari collegamenti tra la contrattazione collettiva nazionale e lo sviluppo di quella aziendale che resta la sola in grado di affrontare la specificità dei problemi laddove si manifestano concretamente. Né ha sciolto il tema della compatibilità o alternatività tra i diversi livelli.
E la distanza su questi temi tra le parti sociali è ancora ampia. Nel comparto industriale la prossima stagione contrattuale e il confronto sul “patto di fabbrica” segnalano, almeno sulla carta, l’esigenza e la disponibilità comune di affrontare alcuni nodi.
Nel terziario la situazione è più complessa. Le ferite della corsa al ribasso sono ancora aperte e non fanno supporre cambiamenti a portata di mano. Sindacati di comparto e controparti datoriali sono riusciti a costruire una trappola perversa e ci sono finiti dentro. In più la contrattazione aziendale è ai minimi storici e ormai lontanissima dalla mentalità delle stesse imprese che hanno scelto un approccio individualizzato. Trasporti e logistica si stanno anch’essi avvitando travolti dai cambiamenti in atto.
Se non emergerà una volontà comune di affrontare i temi strutturali, il salario minimo, una volta entrato in campo e pur limitato nella sua applicazione, dilagherà velocemente. Le imprese (soprattutto le piccole) si riterranno libere di adottarlo e di costruirci sopra le loro specificità mentre i corpi intermedi mostreranno inevitabilmente la loro fragilità in termini di rappresentanza oggi ancora poco evidente per mancanza di alternative.
E, come sempre la palla di neve lanciata con uno scopo rischia di trasformarsi in una valanga. Con tutte le conseguenze del caso. Da qui la preferenza dell’estensione dei contratti nazionali. Coprirebbe buona parte di quel 20% di lavoratori dipendenti oggi esclusi da qualsivoglia tutela. Semmai si potrebbe pensare a formule specifiche da destinare a quei lavoratori che dipendenti non sono ma hanno caratteristiche simili. Personalmente sono di questo avviso.
C’è però una differenza fondamentale tra chi si attesta sulla semplice difesa dell’esistente e chi, pur credendo che nell’autonomia delle parti, pensa che la situazione attuale sia comunque insostenibile. La contrattazione nazionale si difende solo se si è capaci di fare un passo in avanti. Serve una certificazione credibile della rappresentanza e un ripensamento dei livelli e dei contenuti della contrattazione.
Nel confronto tra le parti sociali occorrerà quindi scegliere. Se al centro del nuovo modello contrattuale ha senso ancora la rigida categoria merceologica come è oggi nell’industria, un intero comparto come nel terziario o l’impresa in sé, quando di grandi dimensioni e, infine, quale ruolo assegnare al territorio per le piccole e medie imprese.
Potrebbe essere una discussione interessante se vedesse protagoniste anche le imprese e non solo i soliti addetti ai lavori. Come è evidente il tema della tutela dei più deboli si inserisce in un tema più grande che attiene al lavoro, al suo contenuto, alle modalità di esecuzione e al suo riconoscimento.
L’impresa oggi si sta ripensando per competere. Il futuro del lavoro passa proprio dalla sua capacità di immaginarsi fuori dai vecchi recinti del 900, inserita in un territorio, responsabile verso il contesto sociale e ambientale, interessata alla crescita dei propri collaboratori. E’ una nuova stagione per chi la vorrà vivere fino in fondo e potrebbe dare anche buoni frutti.